Benvenut* a Zarina, la Newsletter che da due mesi e mezzo è italica ma che da mercoledì prossimo tornerà su questi canali dalla sede di Berlino.
Questo numero è speciale per due motivi. Il primo è che la nostra Elena Vaiani è tornata sul pezzo a raccontarci un’altra storia d’amore di una Zarina. Si tratta di Martina Navratilova che in tema di diritti LGBT ha fatto moltissimo anche a costi personali molto alti. Più volte nella sua carriera Navratilova si è trovata di fronte alla scelta di dover ritrattare sul suo desiderio di dire apertamente di essere omosessuale per timore di ritorsioni da parte dello Stato americano o degli sponsor privati che le pagavano lo stipendio. Fra pochissimo vedremo come.
La sorpresa di oggi invece è un breve personal dal titolo “Euro2022 – Visioni e pensieri – di Laura Giuliani, la portiere della Juventus e della nazionale femminile che mercoledì scorso si è qualificata in direttissima agli Europei sconfiggendo per un netto 12-0 la compagine israeliana. Oltre ad essere una giocatrice di altissimo profilo, Laura è appassionata di scrittura e ci ha concesso questo intervento scritto fra il ritorno dalla partita della Nazionale, un allenamento e il ritiro per la prossima partita. Speriamo di riaverla qui presto.
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#Zarineinlove di Febbraio è Martina Navratilova
Nel luglio del 1979 Martina Navratilova vinse due titoli a Wimbledon, in singolare (secondo titolo per lei in carriera), contro quella che sarebbe diventata la sua rivale di sempre, Chris Evert, e in doppio, insieme a Billie-Jean King, battendo Betty Stöve e Wendy Turnbull. E probabilmente, si stava innamorando.
Nello stesso mese, negli stessi giorni, la musica disco morì. Ci fu proprio una Disco demolition night, una manifestazione in cui venne fatta esplodere una cassa di registrazioni di disco-music. Era una musica disimpegnata, leggera, amata da minoranze, dai gay, dagli immigrati e stava prendendo il sopravvento sui generi country e rock. Odiata, osteggiata, doveva morire, e di fatto dopo quella sera le hit disco scomparvero in pochi mesi dalle classifiche. Quindi tanti artisti che avevano fatto fortuna con la disco-music dovettero correggere il tiro. Tra di loro, la regina era Diana Ross, che per il suo nuovo album, post disco-music, voleva un sound diverso, più moderno e ingaggiò due produttori, Nile Rodgers e Bernie Edwards del gruppo degli Chic. Dopo aver ascoltato a lungo la storia della vita di Diana, i due si misero all’opera, non senza emozione: era la prima volta che producevano il lavoro di una superstar.
Una sera, Nile si trovava in un bar per transgender a Manhattan e incontrò diverse drag queen travestite da… Diana Ross. E così ebbe un’idea folle: cosa succederebbe se Diana Ross fosse gay? E se lo urlasse al mondo? Corse fuori dal locale e chiamò il suo collega Bernie, dicendogli di appuntarsi queste parole: I’m coming out (letteralmente ‘sto uscendo’, ma è l’espressione che indica rendere pubblica la propria omosessualità ‘uscendo fuori dal nascondiglio’). Nile si immaginava Diana che ‘uscisse fuori’, sul palco, con la forza di una dichiarazione clamorosa, per raccontare una nuova identità, un nuovo percorso, forse anche una nuova casa discografica dopo la celebre Motown: I want the world to know, voglio che il mondo lo sappia, continua il testo.
Diana Ross fu entusiasta della canzone, tanto da far ascoltare il demo a uno dei più importanti dj d’America Frankie Crocker. A disagio, Frankie le chiese: Perché hai fatto una canzone per gay? E spiegò il significato di I’m coming out all’unica persona negli Stati Uniti che sembrava ignorarlo. «Ti rovinerà la carriera». Diana, infuriata, corse da Nile e le chiese perché lui e Bernie la volessero distruggere facendola sembrare una lesbica. E Nile – mentendo - rispose di non aver mai pensato a questo significato. La convinse che sarebbe stata una canzone vincente, che avrebbe segnato una svolta, che avrebbe potuto essere la musica che annunciava il suo arrivo sul palco… e nessuno avrebbe pensato a lei come lesbica. Diana si fece convincere. Nel maggio 1980 uscì l’album Diana, il cui secondo singolo, pubblicato in agosto, fu proprio I’m coming out.
Nelle stesse settimane in cui Diana cercava rassicurazioni sul fatto che nessuno l’avrebbe mai presa per una lesbica, Martina Navratilova si era davvero innamorata. Di una donna. Una scrittrice, Rita Mae Brown, che aveva sconvolto il mondo letterario nel 1973 con la pubblicazione del romanzo autobiografico La Giungla dei fruttirubini, diventato presto un best seller. Il romanzo fece scandalo perché parlava di una giovane donna che capisce ben presto di essere attratta da altre donne e ne narra apertamente gli amori. Nel 1979 Rita stava scrivendo un romanzo sul circuito femminile di tennis (dal titolo Sudden death) e si stava documentando: la sua protagonista era una tennista professionista che, ancora una volta, amava le donne. Per questo incontrò Martina, invitandola a pranzo, e pochi mesi dopo le due donne cominciarono a frequentarsi, giusto nell’estate di quel Wimbledon. «Un pranzo che non finì mai», dichiarò la Brown, che Martina raggiunse nella città dove abitava, Charlottesville, in Virginia, per vivere in una casa da sogno.
La relazione con la Brown, attivista e dichiarata, fece pensare a Martina di rivelare il proprio orientamento, ma c’era un primo problema, tra i tanti. Martina in quel momento era apolide ed era in attesa della cittadinanza americana. Era nata a Praga nel 1956 e poco dopo essere diventata professionista, nel 1975, sconfitta da Chris Evert in semifinale a New York, si presentò all’ufficio immigrazione della città, dichiarando di voler defezionare dalla Cecoslovacchia. Ottenne una green card americana e poi fece richiesta del passaporto, che però dovette attendere a lungo. E ancora lo stava aspettando nel 1979. A complicare la situazione, le leggi del tempo (e fino al 1990) prevedevano l’omosessualità fra i motivi per non concedere il passaporto americano.
Le voci correvano però e la stampa cominciava a fare domande. Domande che venivano poste solo alle donne perché –, nelle parole di Martina –: Lo sport è qualcosa di maschile e non è messo in dubbio che i maschi siano eterosessuali. Sono le donne che devono provare di esserlo. Lei evitava di rispondere, dicendo che non avrebbe parlato della sua vita privata; ai giornalisti con cui era in maggiore confidenza, disse che prima di fare qualsiasi dichiarazione in merito avrebbe aspettato di avere la cittadinanza. La curiosità però aumentò a dismisura quando la compagna di doppio di Martina, la leggendaria Billie Jean King, fu travolta da uno scandalo. Nel 1981 fu portata in tribunale da Marilyn Barnett, che reclamava il sostegno economico promesso durante la loro relazione. Billie Jean, che aveva cercato di nascondere in tutti i modi il legame con Marilyn, fu costretta ad ammettere la relazione, ma dichiarò che era stato un errore e che rimaneva fedele al proprio marito – da cui avrebbe divorziato diversi anni dopo.
Ma mentre la King faceva di tutto per negare la propria omosessualità (nel 2004 dichiarò che rivelare il proprio vero orientamento sessuale è stata la battaglia più dura della sua vita), nello stesso anno 1981 Martina aspettava il passaporto per poterne parlare liberamente (The time has come for me / To break out of the shell, canta Diana Ross). Dopo il polverone sollevato dal caso di Billie Jean King, tuttavia, si presentò un ulteriore problema. Gli sponsor dell’intero circuito femminile, in particolare la Avon, avevano fatto sapere che si sarebbero ritirati se fosse scoppiato un altro scandalo. A questo punto, dopo aver protetto se stessa, per avere la cittadinanza, Martina non era ancora libera di parlare, perché doveva proteggere il circuito, che temeva di danneggiare con il suo coming out. Due giorni dopo aver ottenuto la cittadinanza, confidò i suoi timori ad un giornalista del Daily News, con preghiera di non scriverne niente. Peccato che la rivista uscì con una foto a tutta pagina di Martina con il titolo: “Martina teme il ritiro di Avon se parla”. E l’articolo trattava chiaramente della ‘bisessualità’ della tennista e del fatto che avesse avuto delle amanti donne. Era il 30 luglio 1981 e Martina, suo malgrado, era diventata la prima atleta professionista a dichiarare pubblicamente la propria omosessualità. Questo fece di lei un doppio modello: negli anni Ottanta erano pochissime sia le donne atlete affermate e riconosciute di livello assoluto, sia quelle omosessuali apertamente dichiarate. Martina diventò un riferimento per tutte loro. Tutto questo, nel momento in cui la relazione con Rita Mae Brown finiva.
Nonostante l’articolo, la Avon non ritirò il suo finanziamento al circuito; per Martina però non fu mai facile avere contratti con altri sponsor. Chi di sicuro non l’abbandonò fu il pubblico, che lungo tutta la sua carriera le diede un appoggio incondizionato, per quel suo gioco rivoluzionario di servizi e volée mai visti tra le donne, ma anche per il coraggio delle sue prese di posizione. Ci volle ancora molto per Martina per poter vivere liberamente le proprie relazioni: si legò alla cestista Nancy Liebermann, che però non voleva dichiararsi e quindi per tutti erano semplicemente ‘amiche’. Tra parentesi, con la Liebermann formarono anche un perfetto team di allenamento, a cui si aggiunsero un nutrizionista e una sparring partner. Nessun tennista allora aveva un gruppo di lavoro simile, ed in poco tempo diventò la regola, anche perché i risultati erano evidenti: Martina Navratilova nella prima metà degli anni Ottanta si impose come la giocatrice più forte del circuito.
Fu solo dalla relazione con Judy Nelson, nel 1984, che la Navratilova non ebbe più necessità di nascondersi o di proteggere qualcuno. Le due donne sottoscrissero anche una sorta di contratto prematrimoniale, legale anche se i matrimoni omosessuali non esistevano ai tempi, contratto che al momento della rottura della relazione (1991) fu fatto valere dalla Nelson per fare causa a Martina e pretendere la metà dei guadagni accumulati per tutto il tempo, sette anni, in cui erano state insieme. Durante la causa Martina dovette rivelare molti particolari della relazione: momenti dolorsi per lei, ma che contribuirono a rendere pubblico, reale, ‘visibile’ e umano un rapporto tra donne. Anzi, la grande attenzione mediatica sulla vicenda fece sì che arrivassero al grande pubblico tutti gli aspetti più complessi e sgradevoli della relazione, e questo in qualche modo ‘normalizzò’ la situazione: alla fine, anche se non c’era stato un matrimonio vero, sembrava una causa di divorzio tra vip simile a tante altre.
Gli anni della causa con la Nelson furono anche gli ultimi della carriera di Martina come tennista, quantomeno nel singolare: si è ritirata nel 1994, con 167 titoli WTA vinti (record dell’era open), per poi tornare sui campi soprattutto in doppio negli anni 2000, e restandoci fino alle soglie dei 50 anni, nel 2006, quando abbandonò definitivamente l’attività dopo aver vinto il suo 177esimo titolo di doppio, e 41esimo dello Slam in totale (US Open, doppio misto, in coppia con Bob Bryan). Judy Nelson invece, dopo la relazione con Martina, si trasferì a… Charlottesville. Per vivere la sua relazione, sì, proprio con Rita Mae Brown.
Quello con la Nelson non sarà né l’unico, né l’ultimo ‘divorzio’ difficile per la Navratilova, che fu trascinata in tribunale nel 2009 da Tony Layton, sua compagna per 10 anni, con richieste da milioni di dollari. Ma oggi, passati i sessant’anni, Martina vive da tempo un matrimonio felice. Si è sposata, questa volta ufficialmente, nel 2014 con Julia Lemigova. E il primo vero matrimonio sembra essere quello giusto.
Martina non ha combattuto meno per la sua vita privata che per le sue vittorie in campo. E mentre il suo talento straordinario, le sue capacità, la sua competitività, l’hanno resa la giocatrice di tennis più forte di sempre, sono state in fondo le sue fragilità e debolezze, le difficoltà di affrontare un mondo ancora pieno di pregiudizi e curiosità morbose a farla diventare, quasi suo malgrado o comunque non certo nel modo in cui avrebbe voluto, probabilmente la figura più importante nel processo di affermazione dell’identità femminile e omosessuale nello sport. Senza le sue dichiarazioni, le cause che ha dovuto sostenere, senza le prese di posizione in favore dei diritti per i gay, oggi non sarebbe possibile che la coppia più amata dell’intero sport americano sia una coppia di donne, Megan Rapinoe e Sue Bird, che a loro volta portano avanti la battaglia per l’uguaglianza. E se si deve esclusivamente al talento di Nile Rodgers e Diana Ross il fatto che Diana, il disco del 1980, sia ad oggi quello di maggior successo della cantante, forse la storia di Martina ha un ruolo nel fatto che I’m coming out sia diventata la canzone di apertura dei concerti di Diana dagli anni ’80 ad oggi. Un ingresso grandioso, una celebrazione, una dichiarazione di libertà e di consapevolezza per tutti coloro che escono da un camerino chiuso per salire sul palco e cantare, liberamente, se stessi.
Euro2020 – Visioni e pensieri
di Laura Giuliani
Se agli albori della mia carriera calcistica mi avessero detto che a ventisette anni avrei già giocato un Europeo e un Mondiale da portiere titolare della Nazionale maggiore, probabilmente mi sarebbe venuto da sorridere, mentre nella testa sarebbe nata quella speranza utopica che questo potesse veramente accadere. Se poi ci avessero aggiunto che, sempre nell’anno dei ventisette, sarebbe arrivata anche la qualificazione al campionato europeo successivo, avrei chiesto direttamente le carte per apporci la firma.
Tutto questo è diventato realtà qualche giorno fa, mercoledì 24 Febbraio 2021, dopo la vittoria con Israele, che ci ha consentito di staccare il biglietto per Euro22 in direzione Inghilterra. Non a caso nello stesso stadio, l’Artemio Franchi di Firenze, dove, ormai tre anni fa, festeggiavamo la qualificazione al Mondiale di Francia 2019, circondate da tifosi impazziti e bandiere tricolore dopo la vittoria con il Portogallo.
Parlo di sogni che diventano realtà, di doveri che negli anni diventano responsabilità e di azioni che il tempo trasforma in imprese.
Quante volte da piccola ho guardato le foto di un giovanissimo Buffon che si divertiva a fare Spiderman tra i pali indossando la maglia col Tricolore sul cuore, desiderando un giorno di diventare come lui e di cantare a squarciagola davanti a migliaia di persone che ero pronta alla morte, accanto a chi, come me, non vedeva l’ora di scendere in campo per andare incontro allo stesso destino.
Mi dividevo così, qualche tempo fa, tra la bambina sognante e la realista incantata che vedeva pian piano i suoi desideri realizzarsi, fino ad arrivare a portarsi sulle spalle il peso dell’aspettativa di una nazione e l’orgoglio nel vedere scritto ovunque “L’Italia rosa è una potenza. Va a Euro22”.
Vincere una volta è facile. Il difficile è ripetersi. È questa la grande verità che inizio ad apprezzare col tempo. Un po’ per la motivazione che mi offre nel lavorare quotidianamente per migliorarmi, un po’ per ricordarmi che nello sport non si vive di ricordi. Dopo ogni vittoria e ogni obiettivo raggiunto è fondamentale pensare subito a quello successivo e a cosa fare per raggiungerlo, in modo da avere sempre gli stimoli necessari per continuare a togliersi le soddisfazioni ambite.
I sogni sono il motore che dà inizio al processo. La passione è la spinta che anima il presente. La perseveranza è il segreto per andare lontano nel futuro.
Don’t stop me now cantavano i Queen. Ecco. Quest’Italia Rosa è solo all’inizio.
Bio
Laura è una che mette le mani dappertutto. Ha cominciato giovanissima a metterle sui palloni di Serie A: aveva 18 anni e giocava nel Como. Poi l’ha fatto al Mondiale U20 in Giappone e per 5 anni a continuato a parare palloni in giro per la Germania, fino ad arrivare ai quarti di finale del Mondiale 2019. Oggi è il portiere titolare della Juventus, con cui ha vinto 3 scudetti consecutivi, una Coppa Italia e due Supercoppe Italiane e mercoledì con la nazionale italiana ha ottenuto la qualificazione agli Europei 2022, nel giorno della sua cinquantacinquesima presenza in azzurro. Oltreché per parare, le mani le usa anche per scrivere. A tempo perso. Quando le attaccanti avversarie non le danno troppo da fare. Sui social la trovate su Instagram, Facebook e Twitter.
Due o tre cose che abbiamo fatto in giro in queste ultime settimane
Per Ultimo Uomo ho intervistato Sara Gama, capitana della Nazionale e della Juventus. Hashtag di questo dialogo è stata la parola #futuro.
A partire dalla base raggiunta quali sono gli altri obbiettivi che loro (le future calciatrici professioniste n.d.a.) dovrebbero perseguire?
Gli obbiettivi che avranno loro saranno quelli di migliorare in campo e poi c’è da lavorare sulle differenze dei premi fra il calcio maschile e quello femminile, e anche sull’approdo al professionismo. Bisogna investire su questi aspetti per migliorare il nostro sistema calcio all’interno del sistema calcio. Ne avranno di obbiettivi e il lavoro è tutto lì. Le posizioni devono essere consolidate, perché le posizioni non sono mai acquisite, e bisogna fare di più. Insomma, sarebbe bello che una lasciasse le cose meglio di come le ha trovate. Saranno loro a trovarsi i loro nuovi obbiettivi. Ognuno fa la sua parte.
Sul canale Twitch di Dario Focardi abbiamo dialogato sull’accesso delle scrittrici e giornaliste donne alla narrazione sportiva. In una bella puntata di due ore io, Elena Marinelli e Giorgia Mecca abbiamo raccontato come siamo arrivate a scrivere di sport partendo dal fatto che lo sport lo abbiamo sempre fatto sin da quando siamo state bambine ed adolescenti. Ecco qui la puntata che potete recuperare mentre fate plank scomodamente sul tappeto di casa vostra:
Sempre per la serie televisiva Twitch io e Dario Costa siamo stati invitati sul canale di Nicola Malcontenti per parlare della compagna Becky Hammon. A partire dalla storia della nostra pazzissima coach (non conoscete la storia? esiste un podcast!) siamo arrivati a parlare di donne nello sport, del futuro di Hammon in NBA (sarà mai allenatrice in capo?) e di come mi fanno arrabbiare certi profili Insta che mostrano le giocatrici di basket in pose soft-porno a cavalcioni sul canestro mentre i maschi – nello stesso profilo – sono tutti sudati ed intenti a giocare a basket davvero.
Due o tre cose che abbiamo letto in giro in queste ultime settimane
A. L’Università di Trento organizza un ciclo di incontri dal titolo “Voci e sfide del femminismo contemporaneo”. Si tratta di quattro appuntamenti online a cui è necessario iscriversi per partecipare. Noi seguiremo la nostra Alessia Tuselli che nel quarto incontro conferirà su “Sport e identità di genere: accesso, partecipazione e non discriminazione”. Per leggere l’intero programma ed iscriversi ad una delle giornate basta seguire il link.
B. Su The Vision Elisa Berlin ci racconta in breve la tragica situazione del (non) professionismo dello sport femminile.
C. Vi ricordate Yoshiro Mori? Il presidente del Comitato Organizzatore delle Olimpiadi di Tokyo che aveva detto che le donne parlano troppo e che la loro parlantina è praticamente contagiosa e che quindi se una prende parola poi tutte le altre non possono fare a meno di farlo? Beh. Nonostante le scuse è stato defenestrato e al suo posto è stata eletta una donna, la Signora Seiko Hashimoto, ex campionessa olimpica di pattinaggio sul ghiaccio che ci sembra di gran lunga più titolata del signor Mori per ricoprire questo ruolo.
D. Il capolavoro di Liz Mills che porta la nazionale maschile di basket del Kenya ad Afrobasket 2021.
E. A proposito di professionismo nello sport femminile non ci stanchiamo mai di ripetere come il calcio in questo senso stia facendo dottrina. Dopo il mondiale in Francia le ragazze di Milena Bertolini hanno dato vita ad un movimento che lotta per ottenere la dignità delle tutele che spettano a tutt* i/le lavoratori-trici. “Il nostro domani, ora” è un progetto della FIGC (Federazione Italiana Gioco Calcio) che vuole incrementare il numero delle tesserate nel calcio femminile e dare maggiore visibilità ad uno sport che negli ultimo due anni ha visto un incremento di pubblico e giocatrici sempre crescente. Ecco le parole del Presidente Gabriele Gravina:
Nel prossimo quadriennio l’intenzione è di aumentare del 50% il numero delle giovani calciatrici tesserate, raggiungere successi internazionali con le sette squadre nazionali, migliorare la competitività e lo spettacolo delle competizioni, accrescere la fan base e, a partire dalla stagione sportiva 2022/23, introdurre il professionismo nella Serie A, garantendo al tempo stesso la sostenibilità del campionato. “La FIGC - ha aggiunto il presidente federale - ha adottato per prima questo storico provvedimento e stiamo lavorando per farci trovare pronti entro la stagione sportiva 2022/23".
E anche per questo mese è tutto. Dal prossimo numero torniamo a pubblicare da Berlino - vi lascio con la consueta canzone. Questa volta a tema sportivo.