Benvenut* a Zarina, la newsletter sullo sport femminile.
Questa è la prima puntata e non nascondiamo una certa emozione per il nostro esordio.
Ma cominciamo dai fondamentali. "Noi" siamo Giorgia e Elena, due sportive che si sono conosciute su un campo da basket diversi anni fa. Quando abbiamo cominciato a pensare a una newsletter che parlasse di storie sportive ci siamo subito trovate d'accordo sul fatto che non ci sarebbe interessato parlare delle statistiche reperibili su una qualsiasi pagina di una qualsiasi lega sportiva; noi avremmo voluto parlare di ragazze e del loro sudore e dei loro sacrifici per diventare "un mostro di bravura". Dietro ognuna delle Zarine multiformi di cui narreremo la storia c'è una ragazza affascinante che indossa una tuta da ginnastica. Preparatevi.
Come è noto Settembre è il mese della maratona di Berlino. Quando ormai qualche domenica fa sono uscita di casa e mi sono fermata a guardare i corridori supportati da una banda di tamburi improvvisata mi sono scoperta a piangere e a urlare i nomi di Anna, Katharina, Julia insieme a altre centinaia di persone. Nessuno di noi sapeva chi fossero queste ragazze ma in qualche modo stavamo correndo tutti con loro. Quindi forse non è un poi un caso che a fine agosto Elena abbia proposto di esordire con la storia di Roberta Gibb e Kathrine Virginia Switzer, le prime due donne ad aver corso la maratona di Boston. Una storia fatta di allenamenti infiniti e coraggio, ma anche paura. Vedrete.
Il nostro Zarina Special invece è dedicato a Catarina Pollini , la prima giocatrice italiana a aver indossato la canotta di una squadra di WNBA. È a lei che dobbiamo il nome della nostra Newsletter. Scoprirete subito come.
In questa impresa sportiva ci aiuteranno Marzia, Daria, Elena, Emanuela e Andrea.
La nostra Zarina disegnata è di Flavia Trifiletti.
Se avete domande o richieste o idee scriveteci a zarinanewsletter@gmail.com
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LA ZARINA DEL GIORNO
Boston, 1966. È il 19 aprile, e nel Massachusetts si festeggia il Patriot’s day, che commemora le prime battaglie della guerra di indipendenza americana. Tradizionalmente è il giorno in cui si corre la maratona della città (dal 1969 in poi invece si correrà il terzo lunedì di aprile), giunta alla sua settantesima edizione. Ad aspettare lo sparo di inizio ci sono 540 persone. Sono 541 in realtà, perché nascosta tra i cespugli che circondano la partenza c’è una donna. Si chiama Roberta Gibb e ha 24 anni. Due mesi prima si era iscritta alla maratona, dopo essersi allenata per due anni sulle spiagge della California. Quando le era arrivata a casa una busta dal comitato organizzatore della gara, aveva pensato che si trattasse del pettorale. Invece le si comunicava che la sua iscrizione era stata respinta perché si riteneva che le donne non fossero fisiologicamente in grado di correre una maratona. La distanza massima consentita dall’organizzazione di riferimento, la Amateur Athletic Union, era un miglio e mezzo, circa 3000 metri. I 42 km della maratona sono circa 26 miglia.
Le 540 persone ai nastri di partenza sono tutti uomini. L’unica donna è nascosta. Indossa un paio di scarpe da corsa da uomo - da donna non esistevano - e con una felpa larga cerca di nascondere un costume da bagno utile a appiattire le forme. E i bermuda, larghissimi, sono stati presi in prestito da suo fratello. C’è ancora un po’ di stanchezza da smaltire, Roberta ha passato quattro giorni in pullman, dal sole di San Diego, nell’altra costa d’America, a quel cespuglio di Boston; ma lei sa che lei quella distanza la può correre. Durante tutto l’inverno era andata ad allenarsi sulla spiaggia. Un giorno era partita in un momento di bassissima marea e, senza che nessuno se ne accorgesse, nemmeno lei, aveva passato il confine di Stato arrivando indisturbata in Messico. Al ritorno però, dovendo cambiare strada per il rialzarsi della marea, si trovò davanti il confine, con gli agenti di frontiera che la fermarono: era senza documenti (chi mai si porta dietro la carta d’identità quando corre?) e dovette chiamare un amico di famiglia che garantisse per lei per farsi rilasciare. Tra San Diego e il confine ci sono circa 17 miglia. Considerando che era tornata un po’ indietro, ne aveva corse almeno 25.
Ecco lo sparo. Parte il gruppo e Roberta aspetta di avere molte persone davanti. Poi salta fuori dal cespuglio e cerca di confondersi tra i partecipanti, nella grande ressa di tutti gli inizi di maratona, sperando che nessuno si accorga di lei. Ma subito tra il pubblico si comincia a sentire: «C’è una ragazza! È una ragazza!». Nel giro di pochi minuti anche gli altri partecipanti si rendono conto che Roberta è tra loro. Così la incoraggiano, la sostengono e lei, con enorme fatica ma lottando passo dopo passo per arrivare al traguardo, riesce a finire la corsa in 3 ore, 21 minuti, 40 secondi, che le valgono il 126esimo posto. Nonostante sia una donna arriva davanti a moltissimi. Grandi feste e strette di mano a fine gara, ma ovviamente il tempo non è registrato nei risultati ufficiali: se l’atleta non ha un pettorale, la partecipazione non può essere considerata valida . Ma Roberta ha dimostrato a tutti che una donna è perfettamente in grado di correre quelle 26 miglia e che non c’è alcun impedimento di carattere fisico a vietarlo. C’è, semmai, altro.
«Una donna l’ha fatto quest’anno! Posso farlo anche io». Sono passati pochi mesi dalla maratona di Boston, è il dicembre del 1966. Una giovane studentessa universitaria di Syracuse e il suo allenatore stanno correndo sotto la neve di New York. Sono Arnie Briggs, cinquantenne allenatore della squadra maschile della Syracuse University, e Kathrine Virginia Switzer, che si era unita - anche se, in quanto donna, in maniera informale - al team.
Durante gli allenamenti Arnie era solito raccontarle aneddoti legati alle 15 maratone di Boston a cui aveva partecipato ma, in quel giorno di dicembre, Katherine lo interrompe:: «Basta parlarne. La voglio correre anche io!». Arnie le fa notare che le donne non possono correre a Boston, sono troppo deboli per la maratona. Ma Kathrine sa di Roberta. E insiste. Nel furioso litigio, alla fine Arnie, il bonario Arnie, quello che l’aveva accolta nel team felice di allenare una donna, si arrende: «Se c’è una donna che può farlo, quella sei tu. Ma devi dimostrarmi in allenamento di poter correre una maratona, e sarò il primo ad accompagnarti a Boston». Così continuano a allenarsi, talmente bene che alla fine Arnie convince Kathrine ad andare oltre la semplice partecipazione, come aveva fatto Roberta, e ad iscriversi ufficialmente alla corsa. In realtà nel regolamento non c’era nessun riferimento esplicito all’esclusione delle donne, ma Katherine invia comunque la domanda firmandosi semplicemente con le iniziali del nome, K.V. Switzer, come faceva sempre, in omaggio agli scrittori che ammirava, come J.D. Salinger e T.S. Eliot. Nel frattempo, anche il fidanzato di Kathrine, un omone di 100kg, ex giocatore di football e lanciatore di martello, noto come ‘Big Tom Miller’, e un altro componente della squadra universitaria, John Leonard, si uniscono alla spedizione. Il 16 aprile 1967 si mettono tutti in viaggio. A Kathrine, o meglio K.V., viene assegnato il pettorale numero 261.
Durante il riscaldamento, molti partecipanti (saranno in totale 741, duecento in più dell’anno precedente) notano Kathrine, cominciano a fare conoscenza con lei e a incoraggiarla. E così quando la gara parte, tutti corrono insieme, con la leggerezza e l’energia dei primi km di corsa. Dopo una curva, il gruppo si trova vicino al pullman della stampa, che stava seguendo la gara. I fotografi cominciano a scattare e a immortalare Kathrine e i suoi amici. Proprio in quel momento, un uomo in borghese dell’organizzazione si avvicina correndo, strattona Kathrine e cerca di strapparle il pettorale, senza riuscirci. Si chiama Jock Semple e Arnie, che lo conosce da tempo perché è uno degli organizzatori, cerca di allontanarlo con le buone, ma non ci riesce. Così l’uomo riprova a togliere a Kathrine il suo 261 e a fermarla: una donna non può partecipare alla sua maratona. È così che entra in scena Big Tom, il fidanzato di Kathrine, e risolve la questione con il suo quintale di muscoli: uno spintone e Jock vola a terra ai lati della strada, davanti ai fotografi, che documentano tutta la scena. Impauriti, sconvolti, Tom, Arnie, Kathrine e John pensano solo a correre. Kathrine intanto intuisce che, costi quel che costi, non può fermarsi. Il fiato è corto, deve rallentare, ha avuto paura, ma è obbligatorio arrivare in fondo. Mentre è ancora in corsa i reporter cercano di intervistarla: «Cosa volevi dimostrare?»; «Quando ti fermerai?».. Più le domande si fanno incalzanti, più Kathrine si convince che nessuno avrebbe mai scattato la foto del suo ritiro.
Quattro ore e venti minuti dopo la partenza, Kathrine taglia il traguardo. Un’ora dopo Roberta, che anche in quella edizione aveva partecipato senza pettorale. Ma non c’è lei ad aspettarla. C’è invece un gruppetto di giornalisti, indispettiti per aver dovuto aspettare così tanto per parlare di una donna: la intervistano con sufficienza ponendo le domande con tono risentito. Le fotografie di quella maratona cominciano ad andare in stampa e il giorno dopo i giornali sono tappezzati delle immagini della studentessa di Syracuse che aveva corso, e terminato, la maratona di Boston, nonostante qualcuno le avesse impedito di farlo.
Quelle immagini hanno cambiato la storia della maratona, e anche dello sport al femminile. Dopo la loro pubblicazione, si è avviato un dibattito sulla presenza delle donne in queste gare e dal 1972 Boston ha aperto la corsa ufficialmente anche alle atlete (furono nove su oltre 1200 partecipanti), così ha fatto New York e man mano tutte le maratone, fino alla prima edizione olimpica con presenza femminile, a Los Angeles 1984. E nell’edizione 2019 di Boston, a cui hanno parte 30.234 persone, 13.684 erano donne, poco meno della metà. Tutto questo, grazie al cespuglio di Roberta e alle iniziali di Kathrine.
Cosa ne è stato di loro? Roberta, riservata e decisamente meno esposta sui media, ha continuato a correre per qualche anno, si è laureata in legge (dopo che la sua domanda per entrare nella scuola di medicina è stata rifiutata perché donna) ha esercitato la professione forense ed è anche un’artista. Kathrine, dopo aver vinto la maratona di New York nel 1974 ed aver fatto il suo miglior personale ancora a Boston, nel 1975, arrivando seconda in 2:51:31, ha scritto diversi libri, è diventata commentatrice TV e si è impegnata per i diritti delle donne dello sport. Ha fondato un’associazione no-profit, che si dedica alla corsa, chiamata “261 Fearless“. Nel 2017, nel cinquantesimo anniversario della sua impresa, Kathrine, a settant’anni, ha corso ancora, per la nona volta, la maratona a Boston, poco più di venti minuti più lenta di mezzo secolo prima. In quell’occasione, il pettorale 261 è stato ritirato in suo onore. E ha fatto pace con Jock, che nel frattempo è diventato uno dei più strenui sostenitori dello sport al femminile.
Big Tom, che in quel 1967 sposò Kathrine per poi divorziare nel 1973, non ha solo spintonato un organizzatore dal carattere un po’ focoso. Ha creato uno spazio, sportivo e sociale, che le donne hanno conquistato. Ha spintonato un pregiudizio che riguardava solo in minima parte le capacità atletiche delle donne, e che ha a che fare con convinzioni profonde sulla figura femminile.
«Donne non si nasce, si diventa», scrive Simone de Beauvoir nel suo celebre Il secondo sesso (1949), implicando che mentre le prerogative maschili sono tali dalla nascita, quelle femminili sono determinate in modo decisivo dalla società e dalla cultura. Il ruolo femminile viene costantemente definito da altri; la donna è un soggetto fondamentalmente passivo, non competitivo, quasi non autodeterminato e non autonomo rispetto agli uomini. Se il ruolo attivo delle donne è sempre stato una conquista (il voto, l’accesso all’università, la carriera professionale, etc.), quello degli uomini è definito dal solo fatto di essere nati uomini. Non fa eccezione lo sport: atlete si diventa.
Elena Vaiani
Elena, classe 1989, nata in Delaware ma con lontani parenti abruzzesi, è stata un precocissimo talento dello sport. Eccezionale sia nel volley che nel basket, uscita dal college nel 2008, fu contesa da tutte le maggiori università degli Stati Uniti. Scelse Connecticut e il basket, ma resistette pochi giorni e tornò a casa. In quel momento significava salutare lo sport che l’avrebbe sicuramente resa una stella. Il motivo era che Elena non riusciva a sopportare la distanza da Lizzie, la sorella affetta da una grave malattia cerebrale, che l’ha resa sorda, cieca e incapace di comunicare se non col contatto fisico. Per starle vicina, Elena quindi si iscrive all’università del Delaware e si prende cura di sua sorella. Finché, lentamente, non si riavvicina allo sport, al volley e al basket. E potendo stare vicina a Lizzie, non smette più. Viene scelta nel 2013 in WNBA dalle Chicago Sky e alla fine Elena diventa professionista. Passa in seguito alle Washington Mystics con cui, pochi giorni fa, ha vinto il titolo WNBA, primo per lei e primo nella storia delle Mystics, oltre a quello di miglior giocatrice della stagione (per la seconda volta; la prima è stata nel 2015). A differenza di molte giocatrici WNBA, però, Elena in inverno non si trasferisce in Europa per continuare l’attività e guadagnare. Resta in USA da Lizzie, resta in USA da Amanda, sua moglie dal 2017 (la damigella d’onore era ovviamente Lizzie), e resta in USA per continuare a sensibilizzare le persone sulla malattia di Lyme, che tormenta Elena da sempre e che la costringe a prendere 50 pillole al giorno. C’è un tempo per tutto, e ci sono talento e classe per affrontare ogni cosa.
(L'immagine appartiene a "The Players Tribune" - Link: https://www.theplayerstribune.com/en-us/articles/elena-delle-donne-sister)
Special di oggi: Catarina Pollini, La Zarina (per antonomasia!)
La carriera cestistica di Catarina Pollini, è un grande sontuoso cielo costellato di parentesi. La prima si apre il 24 aprile del 1996.
Catarina Pollini ha da poco compiuto trent’anni ed è fissa nel quintetto base della Pool Comense di Aldo Corno, che, anche quell’anno, per la sesta volta consecutiva, vincerá il titolo di Serie A.
In quel giorno, negli Stati Uniti, la controparte femminile della NBA prende vita in seguito a l’approvazione definitiva da parte del Consiglio dei governatori dell’associazione.
Nel giugno del 1997 viene inaugurato il primo campionato di WNBA a otto squadre: Charlotte Sting, Cleveland Rockers, Houston Comets e New York Liberty per la Eastern Conference e le Los Angeles Sparks, Phoenix Mercury, Sacramanto Monarchs e Utah Starzz per la Western Conference.
Il primo titolo viene vinto dalle Houston Comets, e il premio MVP da Cynthia Cooper, dopo che la sua compagna di squadra, la stella Sheryl Swoopes aveva lasciato il campionato a causa di una gravidanza.
E in tutto questo spettacolo di luci e riflettori finalmente puntati anche sul basket femminile della WNBA, defilata e con pochissimi minuti in campo, ma comunque presente, tra le fila delle campionesse di Houston c’è anche la Zarina, Catarina Pollini.
Quando vent’anni dopo Cecilia Zandalasini, che nel 1996 è venuta al mondo, vola in WNBA per vestire la maglia delle Minnesota Lynx con cui vince anche lei il titolo, tutti pensiamo al fatto che quella strada che dall´Italia conduce agli USA esiste ed è stata già battuta da un’altra donna, 196 centimetri di pura fermezza vicentina.
La seconda parentesi si apre, suo malgrado, alla fine del campionato 1997-1998.
Catarina ha 32 anni e sulle spalle un palmares incredibile: oltre ad aver partecipato a 2 Olimpiadi (con la grande soddisfazione di disputare un quarto di finale ad Atlanta 1996, in quegli Stati Uniti in cui avrebbe giocato poco dopo), 2 Mondiali e 7 Europei con la maglia della Nazionale Italiana, infatti, ha vinto 12 campionati italiani, 7 Coppe Campioni europee, una Coppa Ronchetti e appunto il titolo WNBA.
Gli ultimi quattro anni li ha giocati a Como indossando una divisa rosa contrassegnata da una stella sul petto il simbolo cucito sulla canotta che sta a significare la vittoria del campionato.
A dire il vero sono quattro le stelle che brillano sulla canotta di Pollini e compagne. Ma alla fine del campionato il contratto con la Comense è scaduto e Cata viene trascinata in una lunga battaglia legale, intrapresa perché le fosse riconosciuto lo status di professionista nel basket femminile, contro il club e la Federazione, e a seguito della quale subirà una squalifica.
Quando la squalifica viene revocata la Pollini si sposta alla Pallacanestro Schio dove, nel 2000, batte la sua ex-squadra in semifinale interrompendo così la serie lunghissima di nove scudetti consecutivi. A vincere il campionato sarà poi, a sorpresa, Priolo che batterà proprio Schio in finale per 3 gare ad 1.
Al termine della stagione Cata si trasferisce in Spagna dove gioca per sei anni, nella squadra dell’Ensino Lugo, ritirandosi dal basket giocato nel 2006 ma rimanendo nella società con diversi carichi dirigenziali. L’anno successivo, in sua la sua assenza dal parquet si fa sentire: il Lugo retrocede di categoria e nel 2009 Cata, all’età di 43 anni, ritorna in campo per giocare tre partite con le quali risolleva le sorti della squadra spagnola.
E se da un lato possiamo permetterci di ripercorrere la carriera sportiva della Pollini lasciandoci guidare dai numeri, dall’altro è importante ricordare di come questa cestista straordinaria, dalla grazia indimenticabile e dal nome esotico, si sia guadagnata il soprannome Zarina e un posto assicurato nell’Olimpo delle dee della storia cestistica del nostro Paese.
Un Paese che ha sempre dato poco a questo sport ma che ha ricevuto tantissimo - molto di più di quanto abbia mai meritato.
Daria Tombolelli
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