Se anche voi come me e Coda di Lupo in questa settimana avete avuto duecento lune, questo numero di Zarina è quello che fa per voi.
Mentre tornavo a casa ho pensato alla conferenza stampa di Angela Merkel di qualche giorno fa. Fra qualche anno ci ritroveremo a riflettere su questo periodo che si gioca tutto su decisioni istantanee, su due o tre giorni che possono salvare vite, cambiare la storia. Cosa avremo fatto noi per contribuire? La mia scelta è continuare a raccontare storie, ad infervorarmi al telefono per le questioni che mi stanno a cuore, a cercare un contatto con le mie persone quando il tempo che passo da sola alla scrivania è diventato troppo e le mie gambe sono irrigidite, e i miei sentimenti sembrano scomparsi.
La mia settimana che giunge a compimento oggi l'ho trascorsa contando le volte che ho sorriso grazie ad un messaggio che mi è comparso sullo schermo del telefono.
Il 2021 è un anno che abbiamo aspettato tutti con speranza. Abbiamo voglia di esultare per nuove vittorie, abbiamo voglia di sfiorarci le mani o di sussurrarci qualcosa senza avere paura di mettere in pericolo l'altr*. Abbiamo voglia di innamorarci, perdonare, sorprenderci nel bel mezzo di una strada di un'altra capitale europea.
Ecco il nostro contributo, ecco la nostra vicinanza. Tutto quello che facciamo qui è frutto di una testardaggine che ci fa saltare ogni ostacolo per avvicinarvi ad una storia che in un modo o nell'altro può essere d'ispirazione o più semplicemente può far scaturire un pensiero gentile quando abbandonarsi alla negatività sembra l'inerzia.
Il terzo avvento è un augurio e un promemoria: siamo al traguardo: è il momento di allungare la falcata.
Buon terzo avvento. Dateci dentro di gin tonic.
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Vera Caslavska
di Elena Marinelli
C’era una volta una ballerina con un body nero. No, in realtà: non è una ballerina. C’era una volta una ragazza con il body nero che fa la ruota, e anche la verticale, le capovolte in avanti e indietro. E i tuffi, senza l’acqua a risucchiarla, rotolando sul pavimento quadrato che sa di primavera, senza far rumore.
La ragazza prima si nasconde, vicino alla squadra, poi si concentra in disparte e infine sale. Il corpo si muove nello spazio altrove, perché appartiene all’ossigeno che respiriamo e fende l’aria con un taglio perfetto quando i movimenti diventano difficili. Anche quando afferra una barra, o salta sulla pedana, ogni volta il corpo decide una nuova forma di perfezione.
La ragazza non dice no al corpo, lo segue, gli lascia spazio per evolvere come sa, la concentrazione lo tiene insieme, il sorriso lo riscalda e in quel momento ci parla, ci indica dove guardare, quale scelta fare, organizza per noi la storia. Nel quadrato il corpo effettua il volteggio, il giro, i salti e non è mai solo un corpo che si muove meccanico, è un’arma carica di vitalità, è un fiore a primavera che ha deciso il suo tempo.
Una volta la ragazza fa dieci, l’anno dopo fa quasi dieci. C’era una volta una ragazza con il body nero sullo scalino più alto, con la medaglia d’oro al collo e una targa tra le mani. Non è felice, sta zitta, non è sola: accanto a lei è costretta a far spazio a un’altra che aspetta il momento giusto per alzare la testa, con al collo una medaglia dello stesso peso e delle stesse dimensioni. Si mette al margine, mostrandole con il palmo aperto dove andare: quella è casa sua, la conosce bene, e l’altra è un’ospite che si fa largo.
L’inno nazionale ripete «Dov’è la mia casa?», mentre la ragazza con il body nero guarda la sua bandiera rimanere immobile e fermare il vento, con fierezza, costretta ma non vinta. Succede un’altra volta, mentre il suono innocuo degli applausi del pubblico diventa inaccettabile.
«Dov’è la mia casa?» e la ragazza non può far finta di niente, non riesce a starsene da parte: nello sguardo, si fa carico della ribellione, di una posizione, riesce ad allargare lo scalino più alto, spostando il margine più in là, e quando l’altra sorride e alza la testa, lei la abbassa, guarda in basso e a destra, mentre l’altro inno inizia e trascina con sé anche l’altra bandiera, riottosa e senza scampo.
«Pensammo che i Giochi Olimpici fossero finiti per noi. Ma il Compagno Brezhnev aveva un piano. Decise che invece di starcene buoni a casa, saremmo dovuti andare, per far vedere al mondo che bravi ragazzi che erano. Quando siamo entrati con il cartello “Cecoslovacchia”, tutti gli spettatori, tutti, si alzarono in piedi. Cantavano: Ceco, Ceco, ra ra ra.»
Elena Marinelli è nata in Molise vicino a un passaggio a livello, ma da diversi anni vive a Milano.
Legge i libri degli altri per «ilLibraio.it» e scrive di tennis femminile su «L’Ultimo Uomo».
Ha scritto Il terzo incomodo (Baldini + Castoldi, 2015) e Steffi Graf. Passione e perfezione (66thand2nd, 2020).
Turnerinnen
di Stefania Girometti
Gerhard Keil dipinge nel 1939 un gruppo di ginnaste sullo sfondo di un impianto sportivo. Davanti a lui sfilano sette giovani donne: lanciatrici del disco, del giavellotto, del peso, staffette. È un’inquadratura insolita, che le ritrae fino al polpaccio, poco più ampia di quel piano americano da film western che mostra le figure fino al ginocchio. Ma di western alla Sergio Leone qui non c’è ombra, niente Claudia Cardinale che scende dal vagone del treno in pieno deserto. Al suo posto vediamo giovani donne bionde dal profilo statuario, gambe scolpite che marciano silenziose sotto il portico dello stadio di atletica, di cui Keil mostra due pilastri, che separano le atlete dallo spiazzo in terra battuta e dal colonnato sullo sfondo. I corpi femminili sono corpi possenti, la leggera tunica bianca che funge da divisa lascia scoperti bicipiti ben torniti, formati da anni di duri allenamenti.
Ritmato dai due pilastri, il gruppo procede da destra verso la sinistra del dipinto. Al centro di questo piccolo corteo, in primo piano, è ritratta una lanciatrice del giavellotto. Il suo sguardo è fisso davanti a sé, fuori dal campo d’immagine, mentre marcia di profilo allo spettatore, reggendo nella mano sinistra il giavellotto. È pienamente concentrata sulla prova che l’attende. La compagna che marcia davanti a lei, invece, è l’elemento che scompone la simmetria del gruppo. È lei che, dando le spalle allo spettatore, si gira verso la sua destra e sembra passare (o ricevere) con la mano il peso ad una compagna in seconda fila, la cui figura emerge dietro il profilo della giavellottista. Questo passaggio apre ad un incrocio di sguardi tra l’atleta in primo piano, di cui non vediamo il volto, quella che tiene in mano il peso e l’altra che si trova dietro di lei.
Ma lo scambio richiama anche l’attenzione della seconda aprifila, il cui corpo è sì nascosto da quello della compagna in primo piano, ma il cui viso offre allo spettatore l’unico ritratto frontale della scena. Il suo sguardo rivela una certa sorpresa, forse questo scambio del peso non era previsto.
In effetti, l’atleta in primo piano è l’unica ad avere contemporaneamente due attrezzi in mano, dal momento che, oltre al peso, regge un testimone nella mano sinistra, che la identificherebbe come staffetta.
Keil non aiuta lo spettatore a risolvere il mistero dello scambio. Si limita ad aggiungere alle figure già descritte altre due atlete, che chiudono il gruppo sulla destra della tela. Delle due, quella in primo piano regge un disco nella mano sinistra e, come la giavellottista che la precede, ha lo sguardo fisso davanti a sé, impassibile al resto del gruppo, mentre la sua compagna guarda oltre i pilastri, sul terreno di gara.
Germania, atlete giovani, bionde e statuarie. 1939. Nessuno pensa che il soggetto sia stato scelto casualmente, non per un quadro alto 215 cm e largo 68, non esattamente una misura da piccolo studio di figure. Keil, pittore attivo a Dresda dagli anni ‘30 del Novecento, sa che il soggetto va molto oltre il laconico titolo dell’opera, “Turnerinnen” (ginnaste). Quello che rappresentano queste ginnaste è una versione mitizzata e pericolosamente arianizzata dell’atletica nella Grecia classica. Il messaggio che questa apparentemente innocua rappresentazione porta con sé è quello preciso di una nazione, la Germania, pronta a tutto pur di trionfare sul resto del mondo e sottometterlo al nazismo. Col suo sguardo fisso davanti a sé, la giavellottista al centro del quadro ne è l’emblema. Inscalfibile.
Come nell’Italia fascista, anche nella Germania nazista l’attività sportiva era parte fondamentale della società. Fare sport insieme, e particolarmente ginnastica, aveva un preciso significato politico che oltrepassava decisamente il beneficio fisico. Dalle prove scolastiche fino alle gare olimpiche, praticare uno sport nella Germania del 1939 significava appartenere ad un popolo di individui forti, superiori. Le atlete non erano semplicemente grandi sportive, ma ariane che offrivano i loro sforzi fisici per la gloria della nazione guidata da Adolf Hitler. La vittoria era il mantra della società ariana, e l’atletica doveva contribuire all’esaltazione di quella folle visione, presto mutata in dramma mondiale. Le olimpiadi di Berlino del 1936 precedono di poco il quadro di Keil, che certamente conosceva le immagini della pioniera dei film di propaganda, la regista Leni Riefenstahl. Fu lei a girare “Olympia”, presentato nel 1938 e tuttora considerato un capolavoro dei film sullo sport. Le sue inquadrature delle adunate naziste hanno esaltato milioni di tedeschi, contribuendo a rafforzare il mito ariano e a creare immagini epocali.
Possiamo chiamare Zarine le ginnaste rappresentate da Keil? Se con Zarine intendiamo donne legate indissolubilmente al mondo dello sport allora sì, quelle del dipinto sono Zarine. Erano sportive i cui meriti vanno riconosciuti. Ma siamo tenut* a contestualizzare il loro impegno, che andava ben oltre l’allenamento quotidiano e l’agonismo. La vittoria delle atlete era l’affermazione di un popolo intero, delle idee suprematiste della società ariana propugnate da un capo che ha poi condotto il mondo alla più grande tragedia del XX secolo. Ci sono Zarine e Zarine, l’importante è saperle distinguere.
Stefania Girometti resta emiliana, nonostante i molti anni passati in Germania.
È storica dell’arte e lavora alle Collezioni Statali d’Arte di Dresda, dalle quali proviene il quadro di Keil.
Si occupa prevalentemente di pittura seicentesca, dove di Zarine, ahinoi, non se ne vedono quasi mai.
Amaya Valdemoro
di Dario Ronzulli
Questo pezzo è originariamente uscito su Ultimo Uomo e potete leggerlo interamente qui.
“Mira la rubia, la rubia!”
Il sabato di intermezzo tra semifinali e finali della Final Four di Eurolega è dedicato a varie attività. Tra queste c’è la partita tra giornalisti: 22 selezionati dall’organizzazione tra quelli accreditati che si sfidano in una partita dai contenuti tecnici, come dire, rivedibili (scrivo così perché non sono stato mai convocato e l’invidia mi rode dentro). Poi c’è anche una chicca: per completare le due squadre vengono chiamati due ex giocatori. A Madrid, nel maggio 2015, ci sono Theo Papaloukas e Nikola Vujcic. Poi, all’improvviso, appare una donna sulla quarantina, capelli biondi legati, fisico asciutto, a pieno agio sul parquet. È lì per divertirsi insieme ai colleghi, ma al primo pallone toccato esegue un palleggio, arresto e tiro da lasciare a bocca aperta per la pulizia assoluta del gesto. Fa canestro ed esulta pugni al cielo. Non è solo una giornalista, è evidente. Assisto alla scena seduto a bordo campo e un collega spagnolo accanto a me ripete più volte con entusiasmo incontenibile: “Mira la rubia, la rubia!”.
La rubia, la bionda, in questione è Amaya Valdemoro. Semplicemente la più grande giocatrice spagnola di sempre.
Le 258 presenze con la maglia delle Furie Rosse ne fanno la recordman assoluta non del basket femminile, non del basket in generale, ma di tutto lo sport spagnolo. Parlare della Valdemoro significa parlare di una che ha fatto la Storia del baloncesto, con una bacheca ricchissima comprendente tre titoli WNBA con Houston. Una che ha fatto del lavoro quotidiano in palestra uno stile di vita, una che quando apriva bocca in campo emanava carisma allo stato puro, un’ala poliedrica in attacco e generosa in difesa.
“Il cammino di una persona ha momenti difficili ma all’arrivo c’è sempre una ricompensa” è una delle frasi della chica nativa di Alcobendas che meglio la rappresenta. Di momenti difficili ne ha vissuti tanti ma forse mai come nel 2011.
A 35 anni prima si infortuna durante l’Europeo in Polonia, lasciando la Spagna orfana del suo leader tecnico ed emotivo; poi durante il match di Eurolega con il suo Rivas Ecopolis in casa del Gospic Croazia si procura una frattura ad entrambi i polsi. Roba da uscire fuori di testa. Ma la reazione di Amaya è perfettamente in linea con il suo carattere testardo e con l’amore smisurato per il gioco: dal letto d’ospedale, fresca di ricovero, dichiara che vuole tornare a giocare il prima possibile. Evidentemente sa che superando quella difficoltà avrà una ricompensa. Che prende la forma della medaglia d’oro ai Campionati Europei 2013, l’unico alloro che le mancava. Non è la prima opzione in attacco – bastano e avanzano Alba Torrens e Sancho Lyttle – ma dà l’anima in ognuno dei 140 minuti che mette piede in campo. Dopo un trionfo così la Valdemoro decide di ritirarsi, da regina indiscussa del basket spagnolo. Una regina che non perde il suo trono anche da commentatrice per Canal+. Ecco perché giocava il Media Game a Madrid.
Dimenticavo: dopo quel canestro ne ha fatto un altro, poi un altro, poi un altro ancora…
Dario Ronzulli è nato a Foggia nel 1982 e da bambino sognava di fare il giornalista sportivo.
Ora che è cresciuto lo fa davvero: anni di preziosissima gavetta in radio locali, poi cinque anni a Radio Sportiva e due a Radio Montecarlo Sport.
Ora collabora con la redazione di basket di Tuttosport, scrive per Ultimo Uomo e bazzica l'etere bolognese.
Racconta storie di sport su Gli Elefanti.
Lily Parr
di Giuseppe Ranieri
Nonostante le ritrosie di un paese come l’Italia, da sempre più sensibile alle fascinazioni momentanee che a percepire realmente i mutamenti di paradigma, è indubbio che dai mondiali francesi del 2019, il fenomeno del calcio femminile è finalmente esondato dalle “strettoie” in cui era sempre stato relegato da quell’atteggiamento a metà strada tra il paternalistico e il venale dei vertici del mondo dello sport e del calcio in particolare, per dare vita a quella che, pur con differenti velocità a seconda dei vari contesti, si preannuncia una profonda rivoluzione concettuale.
E proprio come ogni rivoluzione che si rispetti, anche il calcio femminile prende piede e credibilità anche grazie a quei gesti allegorici rappresentati dalla cultura materiale e simbolica, come ad esempio la realizzazione dell’inserimento della prima statua di una calciatrice, a fronte di centodieci uomini, all’interno del National Football Museum di Manchester, vale a dire Lily Parr, una vera e propria avanguardia oltre che un esempio per l’affermazione delle calciatrici in campo e fuori.
Nata nel 1905 nel Lancashire, quarta di sette figli, da una famiglia di estrazione operaia, Lily si appassiona al calcio grazie a uno dei suoi fratelli, e per quanto fosse assolutamente insolito a quei tempi, si ritrovava a giocare a calcio coi ragazzini del quartiere. Addirittura secondo l’autrice Barbara Jacobs a 13 anni il suo sinistro era più potente di quello della maggioranza dei suoi coetanei ed era in grado di segnare praticamente da ogni posizione.
La sua carriera iniziò nella squadra della sua città natale il St. Helen Ladies, ma venne ben presto notata dai manager del Dick Kerr’s Ladies che la ingaggiarono contribuendo a renderla una delle marcatrici più prolifiche della storia: nella prima stagione segnò ben 43 gol grazie al suo formidabile sinistro; una leggenda narra che con un suo tiro ruppe il polso a un portiere maschio che l’aveva sfidata. Inoltre rifilò ben cinque gol a una selezione “Best of Britain” e altri cinque alla nazionale francese, incontri questi che oltre al tasso agonistico, servivano a raccogliere soldi per la beneficenza con risultati straordinari per l’epoca. Si stima che siano state raccolte ben oltre 100.000 sterline dell’epoca.
Erano gli anni della Prima Guerra Mondiale, quelli in cui nonostante le atlete dovessero dividersi tra campo e fabbrica (Lily lavorava infatti in una fabbrica di munizioni, prima di andare in quella che costruiva locomotive), ci fu la prima grande espansione del calcio femminile, tant’è che in un match a Goodison Park si registrarono addirittura 53.000 spettatori, ma nel 1921 la FA decise di mettere i bastoni tra le ruote al calcio femminile, adducendo che il calcio “non era uno sport per donne” e sollevando dubbi sulla ripartizione in beneficenza dei proventi delle partite; ma nonostante quest’ostracismo che fece arrendere molte sue compagne di squadra, Lily continuò a giocare per tutto il paese fino al 1950 a 45 anni, diffondendo la sua fama e divenendo esempio anche fuori dal campo.
Fu infatti una delle primissime a indossare calzoncini da gioco e nonostante i tempi, non ebbe alcuna remora a dichiarare la sua omosessualità andando a vivere con la sua amata; è anche per questo che tutt’ora viene riconosciuta come un’icona per i diritti e della comunità LGBTQ, delle calciatrici oltre che per il non affatto trascurabile dettaglio di avere di aver realizzato ben oltre 900 reti che le conferiscono una dimensione immortale.
Giuseppe Ranieri è catanzarese classe '86,
È laureato in storia contemporanea, scrittore, blogger e inserzionista
Fondatore di sportpopolare.it e di "Linea Mediana", autore di "@Ultras. parole e suoni dalle curve" [Roma,2017 Ed. Il Galeone],
Ha collaborato in diverse pubblicazioni sia libri che riviste accademiche (come "Passato e Presente" e "Zapruder") e anche con emittenti radiofoniche parlando delle sue grandi passioni: lo sport popolare in ogni sua declinazione, il movimento ultras e i vari fenomeni di insorgenza giovanile riuscendo a coadiuvare la sua passione per la scrittura con l'attivismo sociale e politico.
Vi lascio con una canzone.
Come al solito ci trovate su Instagram.
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A domenica prossima con il terzo avvento!
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