E così nel giro di una settimana ho preso un paio di decisioni definitive e sono tornata in Italia per questo lockdown. Il posto da cui scrivo in questo momento è il mio letto da liceale, questa la mia camera da letto in cui i Fratelli Karamazov sono accostati ad una grammatica di greco sottolineata per lo più a caso.
Alla fine di questo 2020 non farò piani di salute per il futuro (in genere inizio sempre l'anno nuovo con un mese di astinenza da alcool e sigarette), non farò una lista di libri da leggere, e non farò nemmeno grandi piani per rendere fantasmagorico l'anno nuovo. Questa volta resto concentrata sul presente, e sul desiderio di preservare la mia salute mentale che quest'anno ha visto due o tre momenti hard core e che adesso sembra essersi assestata su un equilibrio che si rinnova di giorno in giorno.
Una delle fantasticherie di questa stanza è certamente la canotta firmata dalle mie compagne di squadra in uno degli anni in cui ho militato in serie A1 con la squadra di basket della Termomeccannica La Spezia. Visto che in questo quarto avvento c'è anche un mio intervento e che in esso si parla anche di questa canotta firmata, in conclusione del numero troverete anche la foto del cimelio in questione.
Che dire ancora? Non c'è molto da dire se non che ci sentiamo fra un mesetto circa con un appronfondimento su Tessa Bambi scritto da Enrica Fei di cui troverete un'anteprima in questo numero.
Buon quarto avvento. Dateci dentro di pandoro.
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Emily Valentine
di Mauro Mondello
La signora Valentine ha quasi finito di preparare la colazione irlandese del sabato mattina. Uova, pancetta, salsicce, sanguinaccio, pane di patate e panini di soda: è tutto quello che ci vuole prima di mettersi in cammino verso la partita di rugby. A tavola, con i signori Valentine, ci sono quattro ragazzini e due bambine. La più piccola, Emily, ha 10 anni. Da casa Valentine alla scuola reale di Portora saranno venti minuti a piedi. Quella stessa strada l'ha percorsa, qualche anno prima, il giovane Oscar Wilde e qualche decennio dopo la calpesterà l'unico scrittore della storia capace di essere premiato con il Nobel e di giocare a cricket, Samuel Beckett. Ma non è di letteratura che s'interessa la giovane Emily. La sua sarà un'esistenza di viaggi e d'avventure, fra India, Canada e Sudafrica, il mestiere di infermiera, i due figli e poi gli innumerevoli nipoti, prima di rientrare a Londra.
Fa freddo a Enniskillen d'inverno. Quella mattina poi si è messo pure a piovere e i giovani Valentine si impastano le scarpe e i pantaloni di fango mentre se ne vanno alla partita. E dire che la madre gliel'aveva detto, di non portarsi dietro Emily, ma lei c'è voluta andare lo stesso: difficile fermarla, la testa dura di famiglia. La mamma di Ronnie e Basil Crean invece ha deciso che no, era davvero troppo mettersi in pantaloncini a rincorrere una palla ovale con quel tempo, e a giocare non ce li ha mandati. Non ci voleva proprio questa. Basil è il giocatore più veloce della squadra e poi senza i fratelli Crean i giocatori sono quindici contati.
Emily sta lì a guardare, innamorata e furiosa, la partita. Passeggia nervosamente sulla linea della touche e per ogni placcaggio, per ogni corsa dei fratelli che dalla tre-quarti si lanciano verso la linea dei ventidue metri, urla e si dispera. Quando il numero 8 Willie Foster riparte dalla mischia e si fa scivolare il pallone dalle mani a contatto con il flanker avversario, Emily sbatte per terra il cappellino con i fiori che la madre le ha delicatamente ornato e grida al fratello "te l'avevo detto che non è buono a giocare terza centro, ha le mani di pietra!" Ma c'è di peggio. Foster, sull'impatto, è caduto pesantemente sulla spalla destra, che è venuta fuori e di rientrare non ne vuole proprio sapere. Deve per forza abbandonare il campo, ma non c'è nessuno fuori che possa prendere il suo posto. "Fatemi giocare! Dai! Per favore! Meglio io che in quattordici, no? Forza, su, che vi costa? Mi metto all'ala, non posso fare danni e quando vedo che si avvicina qualcuno butto via la palla, così la mamma non si arrabbia".
Insiste così tanto che i fratelli cedono. Succede tutto in un attimo. Emily butta via il cappottino di lana e in un baleno si posiziona sull'esterno sinistro del campo. Ai piedi ha già le scarpe da gioco, che si mette sempre quando accompagna i fratelli alla partita. Adesso la linea di back sul fronte aperto è interamente formata dalla famiglia Valentine: mediano di mischia, apertura, primo e secondo centro sono i quattro maschi, all'ala gioca Emily. Quando mancano dieci minuti le arriva una palla in attacco, poco fuori dall'area dei cinque metri. Sente sotto le mani il cuoio teso e umido del pallone, le cuciture grosse che ne tengono insieme i pezzi, e parte.
Corre più veloce che può, di fronte ha un ragazzino molto più grosso di lei, la palla potrebbe passarla al fratello, che è arrivato a sostegno sull'interno, ma invece Emily disobbedisce e corre, corre, il cuore che le batte forte, punta la bandierina, supera l'avversario e con le ginocchia che le tremano si sdraia sopra il fango. Per un attimo non vede più niente. La terra nera le ha coperto tutta la faccia, il respiro pesante non le fa sentire gli applausi che arrivano dal pubblico. Meta. Sorride ai suoi fratelli, che l'abbracciano, e un po' le dispiace sapere che non potrà tirare il calcio di trasformazione, e che per i genitori questa partita dovrà rimanere per sempre un inscalfibile segreto.
Qualche ora dopo, a casa, Emily è ormai pulita e rassettata. La madre serve il tè del pomeriggio, si preoccupa che la piccola non abbia preso troppo freddo guardando la partita e fa i complimenti ai ragazzi per la vittoria. Il fratello più grande solleva la sua tazza, guarda gli occhi della bambina un po' imbronciata e dice: "abbiamo vinto". Sul viso di Emily torna a disegnarsi un'espressione soddisfatta. Non sa ancora, e non lo saprà mai, di essere stata la prima donna ad aver mai giocato a rugby.
Mauro Mondello, direttore e cofondatore di Yanez Magazin. È nato a Messina (1982), dove non vive e non lavora. Reporter freelance, corrispondente di guerra e documentarista, ha il potere di viaggiare nel tempo, ma sempre e soltanto verso il 26 luglio 1953.
Tessa Bambi
di Enrica Fei
Quando ci allenavamo insieme, Tessa lo vedeva sempre quel punto lontano e preciso che è proprio laggiù: basta un po’ di sforzo e ci si arriva: guardalo è lì, non è impossibile. Io sulle piste d’atletica non lo vedevo, e non per chissà quali arcani motivi: semplicemente perché non mi allenavo abbastanza. Lo dico con un sorriso, con lo stesso spirito divertito con il quale Tessa mi rimproverava quando ci riscaldavamo. Praticavamo marcia, la disciplina di atletica leggera che rende agonistico il cammino; io avevo tra i 10 e i 15 anni, lei tre più di me. L’allenatore non poteva vederci – per riscaldarci facevamo il giro dello stadio d’atletica dall’esterno – e mentre lei marciava, io correvo, rendendomi più facile il riscaldamento. Prima d’ora non ci ho mai pensato: io correvo per non marciare, ma lei marciava, senza correre, alla mia stessa velocità. È un po’ come dire che io prendevo il motorino per non pedalare, e lei pedalava alla stessa velocità dell’acceleratore.
Tessa Bambi, la campionessa. La Tessa che è rimasta nella mia memoria non è solo quella dei record nazionali, della Maglia Azzurra; non è solo la Tessa che vinceva sempre. La Tessa che ricordo è anche quella che rideva in modo squillante, prendeva la rincorsa e, divaricando le gambe e facendo leva sulle braccia, saltava sopra il motorino. E poi, guidando sul viale, ci salutava da lontano con la mano. La Tessa che ricordo è la stessa con cui ho parlato qualche giorno fa, dopo vent’anni che non avevo più sue notizie.
Dopo avere indossato la Maglia Azzurra nel 2001, Tessa si è allenata a lungo con l’infiammazione del nervo sciatico. Finita la stagione, ha deciso di riposarsi per un anno: aveva solo 24 anni e tutto il tempo di interrompere e poi ricominciare. Durante quell’anno, però, ha scoperto “il lato ludico dello sport”, per usare le sue parole. Se andava a correre lo faceva nelle bellissime colline intorno a Firenze, se prendeva la bicicletta non era per un nuovo record ma per perdersi in qualche nuovo bosco. E così a marciare non è più tornata. “Il passaggio non è stato così fluido come te lo sto raccontando”, riconosce lei stessa, “ma alla fine sono stata felicissima così; avevo fatto il mio tempo da campionessa, e ora lo sport lo volevo vivere, non più praticare da agonista”.
Oggi ha 37 anni, vive con il suo compagno e le sue due bambine, Matilde e Agata. Anche il suo compagno è ciclista e ogni anno girano il mondo in bicicletta. “Facciamo i cicloturisti”, mi dice lei ridendo – la risata è quella allegra e contagiosa di quando aveva 15 anni.
Tessa non è mai arrivata alle Olimpiadi ma è rimasta una campionessa, una vera sportiva; perché lo sport, come ci ha insegnato il nostro grande allenatore, Marco Ugolini, non è solo quello dell’Olimpo e delle medaglie, del successo agonistico e della fama. Forse dovremmo cambiare il nostro modo di raccontare lo sport e partire dalla storia di Tessa. “Lo sport si può praticare, sì, ma anche vivere”.
Enrica Fei è arabista e sta concludendo un dottorato in politiche del Medio Oriente.
È redattrice per Il Mondo o Niente e Yanez e co-fondatrice di Teatro Immersivo Firenze, di cui è autrice teatrale. Ha pubblicato su In Fuga dalla Bocciofila, Birò, Magò, Dialoghi Mediterranei, Fair Observer.
Ha un sito dove raccoglie quello che scrive: enricafei.it.
Il corridoio di Betty
di Eugenia Avveduto
Era la fine degli anni ’20, ad Harvey, nell’Illinois. Il Midwest era una zona tranquilla. Insegnavo Biologia al Thornton Township High School. Elizabeth Robinson era una mia alunna, la ritardataria della classe. Cresciuta in campagna, era sveglia, con un sorriso timido ed educato. Portava un caschetto corto. La moda e i cambiamenti in quei luoghi lasciavano il posto alle contingenze e alle abitudini. E lei era figlia di quella terra assopita.
Per tornare a casa da scuola prendevo il treno delle 13:25. Un nuvoloso giorno di maggio sono salito sul treno, ho appoggiato la borsa e il giornale sul sedile al fianco al mio e ho rivolto lo sguardo verso il finestrino. In lontananza si vedeva la strada che dalla scuola porta alla ferrovia e su quello sterrato ho riconosciuto Betty Robinson. Era in ritardo, al suo solito. Ho guardato l’orologio ed era già l’ora per il treno di lasciare la stazione. Sta correndo invano, pensai, e rimarrà al freddo ad aspettare la prossima corsa. Mi misi a leggere e in pochi secondi il fischio segnò la partenza. “Buongiorno, Mr Price!”. Distratto alzai lo sguardo da quelle pagine e dietro il vetro che separava il mio posto dal corridoio, la signorina Robinson era lì, gentile, che mi salutava con la mano. Sgranai gli occhi, ricambiai il saluto e mi rimisi a leggere. .
L’indomani avevo lezione nella classe di Betty. Entrai in aula, le ragazze si alzarono in piedi ma io mi rivolsi direttamente a lei. “Signorina Robinson, mi segua nel in corridoio”. Le altre ragazze si misero a ridacchiare appena fui fuori dalla porta. Lei stessa si stupì, e non capiva quella strana richiesta. “Vada alla fine del corridoio e al mio via corra più veloce che può”. Feci partire il cronometro e quando lo fermai segnava 6”1. Ero senza parole. Nessuno senza allenamento riesce a correre 50 m con quel tempo. La Robinson mi spiazzò. Io non ero solo un professore di biologia, da giovane correndo avevo conquistato diverse medaglie, ormai tutte impolverate in chissà quale cassetto. “Lei, signorina, deve correre. Allenarsi!”. “Ma le ragazze non si allenano, io vivo in campagna e non so…” mi rispose in modo confuso. “Se non sbaglio, lei vive a Riverdale”. Annuì. “Una squadra di ragazzi si allena a poche fermate da lì. Correrà con loro”.
Alla fine della primavera affrontava la sua prima 100 m regionale. Non vinse, arrivò seconda. Gareggiò tre volte, dopo quella corsa che le cronometrai nel corridoio della scuola. Alla quarta, passate poche settimane, era ad Amsterdam, il 31 luglio 1928. Con 12”2 fu la prima donna, a soli sedici anni, a vincere la medaglia d’oro per i 100 m. Era il giorno in cui le scarpe chiodate femminili battevano il terreno delle Olimpiadi per raggiungere il traguardo, per la prima volta. Il seguito e i dettagli della storia Betty Robinson li ha scritti da sola, correndo. E questa fu solo una delle tante esperienze straordinarie della sua vita.
Eugenia Avveduto è nata a Modica nel 1990, vive e lavora a Roma e si occupa di cinema e arte.
Si laurea prima in Architettura e poi si specializza in Teatro allo IUAV.
Dopo aver vinto un premio di critica cinematografica, ha scritto e pubblicato recensioni per la 74° Mostra del Cinema di Venezia.
Ha curato cineforum e ha collaborato alla direzione artistica di eventi in collaborazione con il Condominio Fotografico e il Nuovo Cineteatro Aurora di Modica.
Penny Taylor
di Giorgia Bernardini
Questo è un estratto da un pezzo (ormai datato) a cui sono molto affezionata e originariamente uscito su Yanez Magazine dal titolo "Il genio del basket non ero io".
Il genio – L’anno successivo la divinità si era incarnata in una giocatrice di ventuno anni proveniente dall’Australia che portava il nome di Penelope Jane Taylor. Penny per noi tutte. Se fino a quel momento avevo avuto il sentore che la mano della Madonna non si era ancora poggiata sulla mia fronte (nel nostro gergo cestistico si diceva che una di noi “aveva visto la Madonna” nelle occasioni in cui era particolarmente in partita), al cospetto di Penny mi ero resa conto che tutte le attenzioni della santissima si erano concentrate su una giocatrice sola. Qualsiasi cosa lei facesse in campo era semplicemente perfetta. Se non avessi visto lei prendere un passaggio sulla linea da tre e ergersi in sospensione per lasciare uscire la palla dalle sue dita in un gesto estetico che mi fa pensare ogni volta a un cigno che sfiora con il suo becco una foglia, se non avessi visto la facilità con cui Penny riusciva a manovrare il suo corpo alto 186 centimetri dentro spazi a stento agibili per una bambina alta poco più di un metro, non avrei mai esperito che cosa si intende quando si affianca lo sport a un’esperienza religiosa. Non avrei neanche mai capito fino in fondo come è una giocatrice di pallacanestro che sa davvero giocare a pallacanestro. Lei non era come le altre, lei era un individuo per cui andare in uno contro tre e uscirne vincente era scontato come respirare.
Ho trascorso un intero anno della mia vita in nome di e a fianco di e pensando solo a quella che sarebbe stata la mia più grande ossessione vivente. Io e Penny coprivamo lo stesso ruolo, quella posizione numero tre che è un ibrido, un continuo pendolare fra la zona alta e poi quella bassa dell’area di tiro. Ogni giorno andavo in palestra sapendo di dover difendere su lei ma una volta lì di fronte il terrore di romperla era più forte della tentazione di giocarci insieme. Dicevo continuamente a tutti di voler essere come lei, ancora ignara del fatto che non si può essere come la più grande di tutte – si può esserlo e basta. È stata l’esperienza Penny Taylor a farmi capire che ci sono sportivi che accedono al paradiso, altri che lo sfiorano soltanto, e altri ancora che restano lì sotto a osservare tutto. E io ero solo un altro membro di quest’ultima categoria.
Ci sono notti in cui non riesco a prendere sonno. Notti in cui revisionare tutto è inevitabile. Allora ripenso a quei pomeriggi in cui andavo a La Spezia in motorino, oppure alla semifinale di campionato in casa del Cras Taranto, quando mi ero alzata dalla panchina per esultare sul canestro sulla sirena di Penny e uno sputo giunto dalle tribune mi aveva presa direttamente sulla testa. Quel giorno avevo creduto di essere una giocatrice di pallacanestro, avevo creduto di combattere con le altre ragazze per un campionato italiano di serie A. Ogni volta che mi concedo di ripensare a quel palazzetto che vibrava a ogni salto del pubblico urlante, la vertigine è decisamente forte. Ricadere da lì non mi ha lasciato molte ossa intere. Quella a Taranto è stata l’ultima partita in cui ho visto Penny giocare in carne e ossa, in cui sono stata così vicina a lei da poter scomporre ogni suo movimento in una sequenza di scatti muscolari che speravo prima o poi sarei stata in grado di ripetere. Quando io ho deciso di fermarmi, lei ha preso definitivamente quota. Ancora una volta le nostre traiettorie si sono incontrate, anche se non nel modo in cui avrei sperato io.
Dopo l’anno a La Spezia, Penelope Jane Taylor ha vinto praticamente tutto. Il campionato italiano con Schio, tre titoli WNBA, una medaglia d’oro ai mondiali del 2006 e due argenti alle olimpiadi del 2004 e del 2008 nelle fila della nazionale australiana. Al termine di una lunga carriera ai massimi livelli, si è ritirata nel 2016 con indosso la maglia delle Phoenix Mercury, in cui ha militato con fedeltà per dodici anni. Io sono una delle 58000 persone circa – al momento in cui scrivo – che si sono sottoposte su YouTube a un’ora e due minuti di cerimonia di ritiro con tanto di musica da discoteca di dubbio gusto e discorso finale in cui Penny non si dà nemmeno la pena di citare il nome delle due squadre in cui ha militato in Italia, soffermandosi piuttosto sui chili che ha preso mangiando pasta e pizza. Un dolore lancinante, ve lo posso assicurare.
Sul muro della mia camera da letto, in provincia di La Spezia, è appesa la canotta di quella magica stagione 2002/2003. Il numero è il 16 e sullo sfondo bianco ci sono gli autografi e le dediche delle compagne. Una mia coetanea e compagna di squadra ha scritto “Alla nostra Penny Taylor”.
Penny Taylor stessa, invece, aveva scritto “Giorgia always have fun”.
Non ci sono riuscita, sorry Penny.
Giorgia Bernardini è la fondatrice di Zarina, la Newsletter sullo sport femminile.
È staff writer di Ultimo Uomo per cui scrive principalmente di altete donne.
Ha scritto un podcast su Becky Hammon per Gli Elefanti.
Abita a Berlino e in età avanzata si è data alla Kickboxing.
Vi lascio con una canzone.
Come al solito ci trovate su Instagram.
Seguiteci, condivideteci, sosteneteci.
Ci vediamo a gennaio con qualche novità e un anno in più.
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E ricorda