Ciao a tutte e tutti. Qui Zarina.
Il primo avvento è quello un po' più profano di tutti. Spesso si celebra avendo dimenticato di comprare le candele oppure senza albero di Natale. Se mi guardo intorno casa mia è nello stesso stato di ieri mattina prima di andare a lavoro, e non c'è niente che si possa correlare al periodo festivo che inizia con oggi.
Ma io sono abbastanza conosciuta nella cerchia degli amici per essere quella che non festeggia mai niente – compleanni, natali, etc. Ed è proprio per questo motivo che per il primo Natale ufficiale di Zarina abbiamo pensato di chiedere ad alcune amiche ed amici di scrivere un testo su una donna affascinante in tuta da ginnastica a piacere.
Questo è il 1/4 numeri. Gli altri seguiranno ogni domenica ad un orario variabile che dipende principalmente da quando riuscirò ad uscire dal letto.
Come al solito per consigli, domande, messaggini potete contattarci sul nostro profilo instagram.
Buon primo avvento.
Condivideteci, amateci, spammateci!
Alfonsina Strada
di Silvia Pelizzari
“Una bicicletta”, risponde Alfonsina, anni quattordici, al futuro marito Luigi che le chiede cosa desideri come regalo di nozze. Alfonsina Morini diventa Alfonsina Strada, tutto un destino racchiuso in una parola. La storia però inizia prima, a Riolo, Castelfranco Emilia, pochi chilometri da Modena. La bicicletta entra in casa quando lei è piccola, seconda di dieci figli.
È il 1901 e le donne che vanno in bicicletta sono viste come la manifestazione del diavolo, lei però se ne frega. Inizia a partecipare di nascosto alle gare del paese. Ai genitori dice di andare a messa, invece fa il giro lungo. Sfida i ragazzi, li batte, alza il tiro, sogna di diventare una professionista. “Vi farò vedere io se le donne non sanno stare in bicicletta come gli uomini”.
Nel 1911 stabilisce il record mondiale di velocità femminile, 37,192 chilometri orari. Gareggia in Piemonte e a Pietroburgo, dove riceve una medaglia dallo zar Nicola II. Nel 1917 si presenta alla Gazzetta dello Sport per iscriversi al Giro di Lombardia. Lo fa anche per soldi, lei e il marito stanno vivendo un periodo economicamente difficile. Ma c’è sempre quel fuoco: dimostrare di poter gareggiare contro chiunque. Non ci sono clausole nel regolamento che le impediscano di prendere parte al Lombardia. È la prima volta che una donna partecipa a una gara fino a quel momento destinata solo agli uomini. Arriva ultima, ma finisce la corsa, venti suoi colleghi non potranno dire lo stesso.
Replica l’anno successivo, eppure nella testa ha un sogno più grande, Il Giro d’Italia.
È il 1924, ha 33 anni e finalmente, dopo diverse richieste respinte, viene accettata per la corsa rosa. Il motivo è preciso e non ha nulla a che vedere con un’improvvisa benevolenza dell’organizzazione. Quell'anno i big minacciano di non presentarsi alla partenza a causa degli ingaggi troppo bassi. A Emilio Colombo e Armando Cougnet, direttore e amministratore della Gazzetta dello Sport, serve qualcosa che tenga incollati gli spettatori alla corsa anche senza Costante Girardengo e Gaetano Belloni, e perché non una donna che non ha paura di correre in mezzo a tutti quegli uomini?
Alfonsina forse sa di essere poco più che l’attrazione di punta di un circo. Ma se è il prezzo da pagare per partecipare, pazienza.
Il Giro lo finisce, anche se fuori tempo massimo. Non importa. È entrata nella storia, è "il diavolo in gonnella", la prima donna ad aver sfidato le convenzioni e ad aver dimostrato che si può, si potrà, volere di più, volere di meglio, non aver paura.
Fare l’unica cosa che la appassiona: inforcare la bicicletta e pedalare.
Silvia Pelizzari è nata nel 1983 e vive a Milano. Ha scritto di libri su alcune testate, tra cui Pagina99 e Huffington Post, e ha co-diretto Finzioni Magazine. Ha partecipato all'antologia “Brave con la lingua” (Autori Riuniti, 2018) e ha pubblicato alcuni suoi racconti su riviste cartacee e online.
Almudena Cid Tostado
di Paola Moretti
Almudena Cid Tostado è stata la prima e unica ginnasta di ritmica a partecipare a quattro Olimpiadi consecutive. Insieme a Laura Zacchilli, è stata la più anziana tra le ginnaste ancora attive, ritirandosi all’età di 28 anni.
«È stato difficile scegliere il momento, però è successo come volevo, quando volevo. […] Ho lottato per otto anni contro l’idea che ero troppo anziana per questo sport e ho potuto dimostrare che a 28 anni ero ancora tra le migliori. […] Se la ritmica è uno sport in cui si dà valore all’espressività e al maneggio dell’attrezzo… perché la gente crede che sia solo flessibilità se c’é anche l’attrezzo? È un'arte. E la si apprende con gli anni, con la maturità […] Non mi quadrava e mi chiedevo: perché le ginnaste abbandonano così giovani? Perché tutte intorno a me si ritirano? Io mi sono ribellata.»
Paola Moretti (1990) collabora con diverse testate occupandosi di letteratura e traduzione. Alcuni suoi racconti sono comparsi su riviste letterarie italiane e straniere. È autrice del podcast Phenomena - audiobiografie impossibili.
Rugby e bambine
di Giuseppe Barbato
C’era una volta un piccolo paese. Un piccolo paese con le case, la scuola, l’oratorio e i marciapiedi. Nel piccolo paese c’era una bambina, una come tante. Un giorno nella piccola scuola del piccolo paese giunsero due persone da un paese più grande che distava pochi km dal piccolo paese. Portarono il gioco del rugby.
Spiegarono che si gioca con una palla strana, che assomiglia a un uovo ma non si rompe quando cade. Spiegarono che si gioca in tantə e non si può vincere da solə. Spiegarono che dopo la partita si sta insieme con la squadra avversaria. Spiegarono che si gioca col sole e con la pioggia, con il fango e con la neve. Spiegarono che ci si dà degli strani abbracci, detti placcaggi. La bambina ascoltò con grande attenzione e chiese se poteva giocare anche lei.
- Una bambina non si rotola nel fango e non fa la lotta.
Era delusa ma non demorse. Tornò a casa e disse che voleva giocare a rugby. La famiglia le disse che il rugby non era un gioco da bambine. Se ne andò in camera a piangere. Poi andò all’oratorio e incontrò il prete. Gli stava simpatico quell’uomo, durante il catechismo era sempre carino e ascoltava tutte le domande.
- Don, posso confessarle una cosa?”. Il Don acconsentì e lei disse - Ho detto alla mia famiglia che voglio giocare a rugby ma loro non vogliono, sono cattivi. Il Don ci pensò su e rispose - Hanno ragione loro, lo dicono per il tuo bene. Il rugby non è un gioco per le bambine come te.
La bambina si mise a piangere e scappò via dall’oratorio. Il suo non era un capriccio: quello che le piaceva era il potersi abbracciare sempre, l’idea di stare insieme e divertirsi senza per forza litigare. Le piaceva quella palla così strana, diversa da tutte le altre che aveva visto. Il giorno dopo a scuola ne parlò con l’insegnante. Durante l’intervallo chiese di potersi confidare, che era una cosa importante; sperava di poter contare almeno su di ləi.
- Maestrə, io voglio giocare a rugby. La lezione di ieri mi è piaciuta tanto ma la famiglia e il Don non vogliono. Anche l’insegnante ci pensò su, con uno sguardo che alla bambina ricordava molto quello del Don. Poi disse: - Nel rugby si picchiano, infatti piace tanto ai maschi. Tu sei una bambina, perché vuoi fare come i maschi? La bambina non si aspettava quella risposta. Voleva piangere, voleva urlare ma nessunə avrebbe capito la sua rabbia. Allora non disse niente e smise di pensare al rugby.
Sono passati tanti anni. La bambina è diventata grande e non abita più nel piccolo paese: è scappata in Irlanda. Cammina per le strade della grande città e le piace, nessunə le dice più cosa può o non può fare. Una sera, passando da un parco, fu colpita da un oggetto strano. Assomigliava a un uovo ma non si rompe quando cade. Lo toccò e si ricordò di quando era bambina, del suo sogno. Solo allora si guardò intorno e vide tante persone che giocavano con quella strana palla: si abbracciavano tuttə e non c’erano differenze. Ora era libera e nessunə poteva frapporsi fra lei e il suo sogno.
#Curiosità. Le Zarine del rugby, quelle che crescono nei piccoli paesi come l’Italia, prima di essere Zarine sono bambine o ragazze con un sogno: quello di giocare. Un sogno spesso negato perché non si reputa il rugby un gioco da ragazze. Questo racconto è dedicato a tutte le Zarine mancate del rugby italiano.
Giuseppe Barbato fa mille cose e contemporaneamente nessuna. Tra le mille conduce Radio SPOP, rubrica sportiva che va in onda su Radio Onda d'Urto. Lo trovate su Twitter @vasilijivanovic
Rosetta Boccalini, la ragazza che amava il calcio e sfidò il fascismo.
de Le Intrepide
Non so proprio che mi prendeva quando vedevo giocare i ragazzi. Una specie di prurito ai piedi, non potevano star fermi. Volevano andare, correre, inseguire la palla. Chiusi nelle scarpe da gioco chi distinguerebbe i piedi di una donna da quelli di un uomo?
Il pallone non sa chi lo calcia, riceve il colpo e fa quello che deve fare. Se sei fortunata va in rete. Proprio questo volevo fare! Così con le mie sorelle e altre ragazze decidemmo di provarci.
Nell’estate del 1932, mentre eravamo in vacanza, per la prima volta tirammo calci a un pallone. Non eravamo Meazza ma qualcosa di buono c’era! Sapevamo che sarebbe stata dura ma perché non provare? Rientrate a Milano tornammo alle nostre occupazioni –io studiavo da maestra– ma iniziammo anche a lavorare al nostro sogno.
In 30 ragazze fondammo il GFC Gruppo Femminile Calcistico. Età tra 14 e i 20 anni. Avevamo portavoce e un direttorio formato dalle anziane. Per quanto possano dirsi anziane ragazze minorenni... ai tempi si era maggiorenni a 21 anni. E per giocare serviva l’autorizzazione dei genitori!
Non c’era legge che ci vietasse di giocare in quanto donne ma il regime lesto s’inventò mille regole per farci desistere. La divisa non doveva dar scandalo e bisognò rinunciare ai comodi calzoncini in favore di una sottanina al ginocchio. Pure i colori erano un problema: nulla di chiaro che lasciasse intravedere alcunché!
La durata della partita era ridotta a 15 minuti per tempo e in porta ci stavano i ragazzi, una pallonata poteva compromettere la nostra capacità di procreare! Si giocava solo rasoterra, niente colpi di testa. Figurarsi, quelli noi ragazze non potevamo farli neanche fuori campo. Altra regola assurda? Giocare senza pubblico.
Fummo brave a far tutto per benino. Ci dichiarammo “fascistissime”, mandai la foto della squadra a tutti i giornali e scrivemmo un comunicato che pareva un manifesto: “Si può essere signorine per bene e da casa e praticare al puro scopo ginnastico lo sport del calcio”. La nostra missione era “irrobustire il corpo e ingentilire l’animo”, il nostro motto “Adelante con juicio” preso a prestito dai Promessi Sposi!
l segretario del CONI Arpinati fu d’accordo, i medici anche, così iniziò la nostra avventura. Durò poco ma che gioia! Forse non ne eravamo consapevoli ma stavamo facendo una cosa grossa. Di noi si parlò tanto che la voglia di correre dietro al pallone venne ad altre ragazze. Ad Alessandria nacque una squadretta come la nostra e ci venne l’idea di un’amichevole.
Ma non erano tempi teneri, quelli, e il Regime che fino ad allora ci aveva tollerato pose fine al nostro sogno in sottanina. Ci impedì di giocare con le ragazze di Alessandria e il 22 novembre 1933, mai lo scorderò, ci vietò del tutto di praticare il giuoco del calcio. Da ragazze giudiziose, ma non senza disappunto, ingoiammo il rospo e lasciammo il rettangolo d’erba ma alcune di noi continuarono a far cose che davano fastidio.
o per esempio divenni cestista ma… è un’altra storia e un altro sport!
Le Intrepide, il podcast su donne che l’hanno fatta grossa e non vedono l’ora di raccontartela, è ideato, scritto e prodotto da: Sara Mostaccio, nata a Catania nel 1978, è laureata in lingue straniere e lavora come giornalista e traduttrice. Racconta storie di donne su Elle e scrive per Il Foglio e Repubblica. È la scribacchina della squadra.
Assya D’Ascoli, nata a Taormina nel 1978, ha seguito studi giuridici e lavora in uno studio legale. Appassionata di radio, per 20 anni ha lavorato per diverse emittenti. Dà voce e anima a ogni intrepida del podcast.
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A domenica prossima con il secondo avvento!
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