Portiera, portiere, portierX 🥅
Di uscite dai pali e questioni linguistiche nello sport fatto dalle donne
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Bentornate e bentornati su Zarina, la newsletter sullo sport femminile che non ha fissa dimora e oggi sta squattando l’internet dalla abitazione amicale situata in 12053 Berlino.
L’ultima apparizione pubblica che racconta un po’ che sta succedendo fra un articolo e l’altro risale al 15 giugno ed è un pezzo uscito su Siamo Mine intitolato “Dimettersi senza un piano” (che puoi recuperare qui) in cui racconto un po’ gli eventi che si sono susseguiti da gennaio ad oggi.
Detto questo è arrivato il momento di tirare fuori la mia maglia della Svezia in vista degli Europei di calcio che avranno luogo dal 6 al 31 luglio in Inghilterra e che sfoggerò spesso nelle prossime settimane in giro per i posti in cui parleremo di calcio e delle Azzurre: a Milano in date sparse su cui vi aggiornerò nella sezione “incontriamoci” che trovi poco più giù in questo numero, in GOLEADORA e nelle storie su Insta nel canale di Zarina (che se non segui ancora puoi iniziare a seguire adesso proprio qui).
Ora che abbiamo fatto il giro di bussola su quel che è successo dall’ultimo numero di Zarina arrivato nella tua casella di posta possiamo iniziare a parlare di sport in senso stretto.
Hey! Questo è Velata, un saggio sullo sport femminile che ho scritto io!
Lo puoi ordinare qui (e leggere anche di che cosa tratta) e se ti va ci posso pure scrivere qualcosa dentro:
Portiera, portiere, portierX
di Giorgia Bernardini
Il sei giugno su l’Ultimo Uomo è uscita una mia intervista a Camelia Ceasar, la portiera della AS Roma e della squadra nazionale della Romania. Parlare con Ceasar è stata un’ottima occasione per avere informazioni di prima mano sulla preparazione atletica del ruolo dell’estrema difensora nel campionato italiano femminile. I pregiudizi in questione riguardano soprattutto il ritardo atletico e tecnico-tattico che in genere viene imputato alle portiere. In sostanza è venuto fuori che il ritardo di preparazione è dovuto proprio…ad un ritardo di preparazione che è strutturale all’interno dei club in cui le portiere iniziano ad allenarsi sin da giovani.
Dentro questa intervista ci sono molte dichiarazioni interessanti che vanno a toccare altri argomenti legati allo sviluppo del calcio femminile in Italia e ovviamente anche al passaggio al professionismo del calcio italiano. Ma il motivo per cui ho deciso di riprendere qui questo discorso è legato alle ripercussioni che la pubblicazione di questo pezzo ha avuto nei giorni successivi.
La mattina in cui mi sono collegata per parlare con Ceasar avevo preparato una serie di questioni di cui mi sarebbe piaciuto parlare con lei. Poi, poco dopo le presentazioni e prima di iniziare l’intervista vera e propria, mi è baluginato in mente di chiedere alla calciatrice come avrebbe voluto che io mi rivolgessi a lei durante l’intervista: voleva che la chiamassi “portiere” o “portiera”?
“Portiere”, mi aveva detto subito senza alcuna esitazione. Nella sua accezione maschile.
La domanda mi era venuta in mente in maniera estemporanea, senza alcuna preparazione da parte mia. La questione linguistica legata allo sport è un argomento con cui mi confronto di frequente e il dubbio su come volessi denominare le atlete era a sua volta nato ormai qualche anno fa. Erano le settimane del celeberrimo Mondiale in Francia del 2019 e il giorno dopo la partita fra Italia e Cina valida per gli Ottavi di finale era uscito un pezzo molto acuto di Giulia Siviero sul Post che il 26 giugno 2019 commentava in maniera articolata la questione relativa a come Laura Giuliani, la portiera della Nazionale Azzurra, avesse scelto di auto-determinare se stessa al maschile nell’ambito professionale. Per chi ancora non conoscesse il pezzo in questione, cito qui la trascrizione della parte di telecronaca di Italia-Cina in cui Patrizia Panico e Tiziana Alla avevano affermato che:
“(…) Laura Giuliani, il nostro portiere che ci tiene ad essere chiamata portiere e non portiera. Ce lo ha detto nei giorni scorsi, c’è appunto anche questa questione del linguaggio che continua a interessare, questi termini che se fossero declinati al femminile sarebbero decisamente cacofonici. Sono le stesse giocatrici che hanno detto no: preferiamo che cominci a passare un’interpretazione neutra del ruolo piuttosto che declinare tutto al femminile”.
Il pezzo è davvero interessante e in sintesi, a partire dalle dichiarazioni di Giuliani e da una supposta cacofonia (???) della parola “portiera” alle orecchie di Alla e Panico, Siviero sostiene che è importante per le donne definire se stesse in maniera corretta anche da un punto di vista linguistico, e quindi al femminile. Questo vale in ogni caso e di conseguenza anche nel linguaggio professionale legato al mondo dello sport – un ambito interessante soprattutto perché lo sport è ancora oggi una sfera d’appannaggio maschile. Nello specifico Siviero dichiarava:
Cominciamo dunque noi per prime a nominarci senza paura, vorrei dire a Laura Giuliani: a forzare, a sopportare il fastidio nelle orecchie, lo scarto, a cambiare dal momento in cui apriamo bocca quel modello che finora ha rappresentato l’unico riferimento e che vogliamo trasformare: ché questo porta immediatamente con sé tutta una serie di significati reali e sostanziali. Iniziare a rivendicare un riconoscimento continuando a nominarsi come un uomo, significa non aver compreso la trappola: l’adattamento al modello maschile, l’essere pensate e rappresentate come brave o legittimate in quel ruolo solo se lo siamo come un uomo.
Per chi non lo sapesse, dalla questione di portiere/portiera di Giuliani ai Mondiali erano scaturite una quantità enorme di articoli, twitt e commenti tutti molto interessanti e a modo loro fonte di grande riflessione e soprattutto di dubbi (ma a noi i dubbi piacciono e quindi bene così) che sono stati poi raccolti in un ottimo articolo di Marco Giani che ha il titolo di “L’estate della portiera” ed è facilmente scaricabile QUI. Questo articolo molto esaustivo ha il pregio di mettere insieme elementi grandi e piccoli, testimonianze del pubblico e delle addette ai lavori, twitt e video che concorrono a creare un lavoro di socio-linguistica minuzioso e che vi invito a leggere se vi interessa andare a fondo step by step alla questione.
Era proprio a partire da questi elementi che quando poi ho preparato l’intro per l’intervista mi sono resa conto che per motivi metodologici sarebbe stato corretto mettere anche su l’Ultimo Uomo una postilla proprio su questo scambio avvenuto per così dire “fuori intervista”. E infatti avevo accennato:
Una postilla finale: se vi state chiedendo per quale motivo ho usato “portiere” invece che “portiera” per tutta l’introduzione, la scelta linguistica è dovuta alla volontà di Camelia Ceasar. La prima domanda che le ho posto riguardava proprio se preferisse che durante l’intervista mi rivolgessi a lei come “portiera” o come “portiere”. Senza nessuna indecisione mi ha risposto che voleva che ci si rivolgesse a lei al maschile, e così – mio malgrado – ho fatto durante tutto il nostro incontro.
La prontezza con cui Ceasar aveva scelto “portiere” a modo suo mi era sembrato un elemento importante da inserire; un elemento che in un certo senso si posizionava in una certa continuità con quello che era stato detto da Giulia Siviero al Post. E anche se poi mio malgrado mi sono rivolta a Ceasar al maschile per tutta l’intervista (io avrei ovviamente optato per “portiera”), alla fine mi era sembrata la cosa più giusta da farsi definirla come lei desiderava essere definita.
È interessante come diverse persone mi abbiano scritto in privato poi per commentare la mia scelta metodologica e anche per portare avanti questa riflessione a pezzo fatto. In sostanza i messaggi sottolineavano quanto sarebbe stato importante che Camelia Ceasar avesse scelto di definire se stessa al femminile e di come io avrei potuto evitare di chiedere a lei la sua preferenza. Avrei dovuto piuttosto usare “portiera” e basta e scegliere io per lei. Forse, mi ha detto una assidua lettrice di Zarina, lo spazio di negoziazione che avevo lasciato non avrebbe dovuto esserci perché non chiediamo ad una maestra come vuole essere chiamata, non lo facciamo con una dottoressa, quindi non dovremmo farlo nemmeno con una portiera. Il rischio infatti è che alla domanda diretta, la donna continui a rispondere sempre di volersi autodeterminare al maschile (forse perché inconsciamente le donne stesse credono che denominarsi al femminile tolga prestigio al titolo) e che in questo modo non si possa giungere a nessuna evoluzione in campo linguistico.
E questo, mi viene da dire, è possibile. Esiste il rischio che se io continuo a chiedere ad ogni atleta che intervisterò come vuole essere denominata, io possa incorrere nel rischio che lei mi risponda sempre “portiere”, “capitano” oppure “difensore” e che questo porti poi a non spezzare mai questo circolo vizioso. Ma d’altro canto mi domando: allora la soluzione alternativa è che io imponga una mia decisione sulla sua persona? Che sia io, in sostanza, a scegliere come chiamarla senza chiedere il permesso per questo? Non è una azione anche questa violenta, che minaccia il modo in cui scegliamo di auto-determinarci? Ci ho riflettuto per diverse settimane e non sono ancora sicura che imporre me stessa su una persona che intervisto sia una scelta corretta. Allo stesso tempo però io stessa cerco sempre di usare l’accezione femminile delle parole e se per strada trovo sulla porta di un ufficio sconosciuto una targa bronzea che dice “avvocatesse” faccio una foto e la condivido orgogliosamente con le mie amiche.
Dopo qualche settimana di riflessione però mi sono resa conto di poter optare per una soluzione intermedia. Per quanto mi riguarda io appoggio dalla prima ora la scelta di denominare le calciatrici al femminile nei pezzi in cui scrivo o quando ne parlo nei podcast o nelle interviste. Se a volte è capitato che io abbia citato un ruolo nella sua accezione maschile è stato certamente per un calo di attenzione; dove c’è la mia volontà ci sarà sempre la scelta del femminile invece del maschile.
Eppure credo che sia importante anche fare un passo indietro e domandare alle atlete come vogliono essere denominate, nei casi in cui è possibile ovviamente. E nel caso in cui una preferenza venga accordata (magari prima o dopo qualcuna mi dirà: «per me è indifferente, fai come ti pare» – e allora è chiaro che a quel punto avrò tutta la libertà di optare per il femminile), mi sembra obbligatorio rispettarla fino in fondo. Questa preferenza per esempio potrebbe essere rispettata nelle interviste dove la parola “io” ha la priorità e non si può ignorare chi si ha di fronte. Come mi dovrei comportare se un* atleta mi chiedesse di rivolgermi a lei/lui con il “them”; come dovrei fare? Per lo stesso principio, se non sono d’accordo con questo pronome mi posso comunque prendere la libertà di usare he/she perché mi va così o perché non è perfettamente aderente all’uso della mia grammatica? Mi sembra che ci voglia un po’ più di cautela quando parliamo delle altre persone perché dentro le parole che scegliamo per determinarci c’è molto di più di una regola grammaticale che ci fa sollevare il sopracciglio.
In caso contrario, nei pezzi di commento, nei podcast, nelle domande che invece vengono poste a me, forse potrebbe essere sensato scegliere di usare il femminile senza in questo modo prevaricare nessuno. Infatti mi pare che in queste forme di scrittura (articoli, long-form, racconti) ci sia una specie di allontanamento di prospettiva, di distaccamento dall’Io e se affermo che una calciatrice che gioca in porta è una portiera non sto di fatto facendo un torto a nessuno – fino a prova contraria.
Me ne rendo conto, è molto complicato. E le mie sono riflessioni che al momento mi sembrano soluzioni intermedie e non soddisfano pienamente nemmeno me. Probabilmente con gli Europei alle porte e la conseguente necessità di nominare le calciatrici in maniera più frequente, questo sarà un argomento con cui ci confronteremo spesso e sarebbe bello che nascesse un dialogo intorno a questa questione. E magari di scatto in scatto probabilmente riusciremo a trovare una normalità che non ci farà più parlare di cacofonia. Possiamo iniziare a parlarne da qui non tralasciando però che la sintesi probabilmente arriverà piano piano.
Mi piace l’idea di lasciarvi con le parole per me sensatissime di Milena Bertolini che in una intervista datata 2 maggio 2019 (prima dell’inizio del Mondiale da cui tutto è nato e quindi in tempi ancora non sospetti, come dice Giani) si esprime in questa maniera sull’argomento che ha a che fare con il suo titolo.
Alla domanda del giornalista ANSA se Mister è un appellativo che le sta bene, la Miss risponde:
Mah, eh, ancora ... c’è chi ancora mi chiama mister, molti mi chiamano Milena ... coach sinceramente non mi piace, perché mi ricorda un po’ il basket ... Però devo dire che le parole sono importanti. Le parole sono importanti, perché le parole definiscono i pensieri, e quindi questa terminologia, che è tutta declinata al maschile, credo che piano piano la dovremo cambiare. Io ci sto provando, con le mie ragazze, ma dato che veniamo da una terminologia maschile di tanti anni, le mie stesse ragazze in campo chiamano “uomo!”, e allora io ogni tanto gli dico “ma io qui non vedo nessun uomo, in campo!”, e allora loro rimangono spiazzate ... e però il cambiare terminologia, sin dalle ragazze giovani, cerchiamo di farlo con le nazionali giovanili, è importante, e quindi ... ci dovremo arrivare. Anche mister, effettivamente, è declinato al maschile, forse, magari, se proprio lo vogliamo usare, proviamo a pensare a miss, oppure allenatrice, però insomma ... dobbiamo pensarlo. Sono d’accordo, perché se continuiamo a utilizzare queste parole declinate al maschile, anche i pensieri poi tendono ad andare là invece di ...... e quindi dovremo piano piano trovare una sintesi tutti, ma tutti gli addetti ai lavori!
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Diluvio Festival, Ome (Brescia) sabato 30 luglio, ore TBD: presentazione di Velata.
E anche per oggi è tutto da Zarina.
Se ti va di contattare Zarina per qualsiasi motivo oppure per parlare di VELATA, basta che mandi una mail a giorgia@zarinanewsletter.it
Per oggi è tutto ma ricorda che #siamotutt*Zarina
PS: l’immagine di copertina di Laura Giuliani appartiene a Google
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