High Five! Sei su Zarina.
Come al solito mi presento. Io sono Giorgia e ti mando questa newsletter sullo sport femminile una volta al mese, l’ultimo sabato del mese.
Zarina racconta le storie di ragazze affascinanti in tuta da ginnastica, ogni donna che ha una storia legata al mondo dello sport, non importa se come atleta in senso stretto o come persona che ha fatto dell’attività sportiva un capitolo importante della propria vita.
Come al solito senza fiato, di corsa, fino all’ultimo respiro ma siamo qui di sabato e fuori c’è il sole. Domani cambia l’ora e c’è da farsi il nome della croce.
Oggi però c’è Zarina, io (Giorgia) ho parlato con Elena Cecchini (grazie Marco G. <3) e Olga Campofreda invece ci fa sognare con Flèche di Mary Jean Chan, una raccolta di poesie sulla scherma che è una raccolta di poesie su ogni ragazza che da bambina ha iniziato uno sport e si è infatuata di tutto: della palestra, della divisa, della sua compagna di squadra.
Tre. Due. Uno.
La Zarina di Ottobre
Non è mai successo che una ragazza possa vincere da sola
Intervista ad Elena Cecchini
di Giorgia Bernardini
Elena Cecchini è una ciclista su strada e pistard italiana classe 1992. Elena ha deciso molto presto di lasciare l’Italia per proseguire la sua carriera ciclistica nel nord Europa, un luogo fisico dove esercitare il ciclismo con tutele e strutture diverse rispetto all’Italia. Nel 2015 ha militato nelle Lotto Ladies, una squadra belga di ciclismo su strada. Dal 2016 al 2020 invece si è spostata in Germania, alle Canyon SRAM. La chiamata importante poi è arrivata in piena pandemia quando la SD Worx, squadra femminile olandese in cui milita Anna van der Breggen, il fenomeno del ciclismo femminile, l’ha voluta in squadra per farle esprimere fino in fondo un potenziale che può essere ulteriormente affinato all’interno di un contesto professionistico ai massimi livelli di visibilità.
Per la carriera ciclistica di Elena il 2021 è un anno magnifico. Risale a settembre bronzo ai Mondiali nelle Fiandre nella staffetta mista. Solo qualche settimana prima invece era arrivato l’oro all’Europeo di Trento, anche questo nella stessa specialità.
Con Elena abbiamo chiacchierato di quanto sia stato importante per la sua carriera l’approdo alle Fiamme Azzure e poi ai club nord-europei, di che influsso può avere una bicicletta ricevuta in regalo da bambina per quella che un giorno sarà una professionista del ciclismo e di come lei non si riconosca nel ruolo mediatico che le hanno affidato i giornali italiani: “Elena Cecchini, la fidanzata di Elia Viviani”.
***
Elena come sei arrivata al ciclismo?
Mio padre, mio zio e mio fratello vanno in bici da sempre e a sei anni sono stata messa su una bicicletta anche io. Ad un certo punto mi hanno portata in un paese vicino a casa dove c’era una squadra di cui mio zio e mio padre erano dirigenti. È lì che ho iniziato a fare i primi allenati e le prime gare in bicicletta. Nel frattempo mia madre però ha cercato di spingermi verso qualche altro sport, quindi facevo nuoto, ho provato la ginnastica artistica, però devo dire che niente mi interessava o piaceva come andare in bici.
Le cose sono diventate un po’ più serie intorno ai 17 anni quando sono passata alla categoria juniores, perché sono entrata in Nazionale e da lì ho iniziato a girare molto per i campionati europei e campionati del mondo. Poi sono passata alla massima categoria e allora il ciclismo è diventato un vero e proprio lavoro.
Non è stato sempre un percorso facile. Ci sono stati molti alti e bassi dovuti al fatto che a scuola ero abbastanza brava e mi piaceva molto essere fra le migliori della classe. Soprattutto alle superiori è stato difficile conciliare le due cose, però non mi è mai passato per la testa di lasciare il ciclismo. Ma devo dire che ho vissuto dei momenti di grande stress che una ragazza a quell’età non dovrebbe avere per poter fare uno sport ad alti livelli e allo stesso tempo essere brava a scuola. Però è stato formativo.
La squadra in cui hai iniziato da piccola immagino fosse precipuamente composta da bambini e ragazzi, oppure c’erano altre bambine?
Fra i sei e i dodici anni c’erano delle bambine, non molte però. Eravamo meno di cinque, e comunque eravamo un po’ le diverse. Devo dire che questa cosa è cambiata moltissimo negli ultimi anni, adesso ci sono tantissime bambine che vanno in bici, ma anche tantissime donne. Lo noto anche quando mi alleno sulle mie strade in Friuli, una terra dove il ciclismo è molto praticato ed amato. Fino a cinque, sei anni fa era molto raro trovare un’altra donna in bici, mentre adesso ce ne sono moltissime e vedo anche moltissime coppie che vanno insieme: fidanzati, coppie sposate. Ed è una cosa mi dà molta soddisfazione e mi mette di buon umore.
I tuoi risultati più recenti sono un oro all’Europeo, un bronzo al Mondiale in staffetta mista. Come funziona una staffetta a squadre nel ciclismo?
La disciplina è cambiata dal 2018 in poi. Fino a quella data i tornei erano organizzati in cronometro a squadre, cioè ogni squadra di club schierava sei ragazze alla partenza in una gara a cronometro dove chiaramente la miglior squadra faceva il tempo più basso sui quaranta/cinquanta chilometri.
Dal 2018 in poi hanno tolto questa specialità ed hanno inserito il team-relay, che è appunto la specialità dove ho vinto gli ultimi campionati europei e dove abbiamo fatto medaglia ai Mondiali. Il numero dei partecipanti è stato mantenuto a sei, ma le squadre sono state suddivise in tre uomini e tre donne con una dinamica prestabilita.
Gli uomini partono per primi a completare un percorso; quando poi passano sotto lo striscione dell’arrivo partono le tre donne che completano lo stesso percorso. Chiaramente vince chi ha il tempo minore accumulando la somma dei due tempi. La partecipazione in questo caso è Nazionale, e non di club come prima del 2018.
Questa nuova disciplina poi ha prospettive, stanno pensando anche di proporre la disciplina ai giochi olimpici.
Qual è il feeling differente fra il ciclismo da strada e quello da pista?
Sono due discipline diverse che richiedono allenamenti diversi. Però la fortuna è che l’una può essere funzionale all’altra. Io ho praticato pista e strada in simultanea fino al 2016. Quell’anno poi ho avuto più possibilità di partecipare alle Olimpiadi di Rio come stradista e ho accantonato per un po’ la pista e mi sono focalizzata sulla strada. Alla fine ho partecipato alle Olimpiadi e da lì è stato difficile reinserirmi a pieno regime nella pista anche se la pratico ancora saltuariamente, più per allenamenti specifici.
La differenza principale è che la strada è più uno sport di endurance dove ti devi allenare con tempi lunghi, e poi è diversa per la testa. Puoi andare in diversi posti, ti prendi l’aria fresca in viso. Invece la pista è più adrenalinica. Si tratta di gare molto corte ed intense, che quindi anche a livello di preparazione richiedono un allenamento totalmente diverso. È più una gara da sangue in gola, che dura poco ma che soprattutto per il pubblico è assolutamente spettacolare.
Il ciclismo viene annoverato fra gli sport individuali. In realtà anche nel ciclismo i grandi successi non riuscirebbero se non ci fosse una squadra a costruire una situazione, un momento finalizzato a mettere in condizione la persona designata ad arrivare al traguardo per prima. Tu come la vedi?
Il ciclismo è uno sport totalmente di squadra. Soprattutto per il livello che c’è adesso nel ciclismo femminile. Che è un livello altissimo e quindi è chiaro che ogni ragazza che arriva al traguardo per prima non lo fa mai da sola. Non è mai successo che una ragazza possa vincere da sola. È sempre grazie al contributo delle proprie compagne di squadra e dello staff. C’è tutto un lavoro precedente che non si vede: il giorno prima di una gara ricevi un massaggio, c’è il meccanico che ti mette a punto la bici, quindi è un lavoro di squadra enorme ed è per questo che per me essere sul podio del team relay tutte e tutti insieme è bellissimo. Quello è un momento di condivisione che altrimenti di solito non accade. In genere chi vince va sul podio da solo ma il risultato è un lavoro di squadra, molto più di quello che si possa pensare.
C’è un numero fisso di membri di una squadra? E soprattutto mi chiedo come si faccia a designare la persona che andrà a tagliare il traguardo per prima?
Ogni squadra femminile è composta dalle dieci alle dodici ragazze ma ad ogni gara si può partecipare fino ad un massimo di sei. Quindi abbiamo calendari diversi anche fra di noi.
Designare il leader è abbastanza facile. Innanzitutto bisogna guardare la natura del percorso. Io non sono una scalatrice e quindi è normale che per me la classifica del Giro d’Italia non sarà mai un obiettivo reale.
Le cose sono diverse in una classica del Nord. Quelle sono gare che a me piacciono e dove di solito vado abbastanza bene. Certo è che se ci sono diverse ragazze che vogliono performare in quella gara, si darà la libertà a due, massimo tre atlete di vincere quella gara. Ma alla fine molte volte è la strada a decidere. Sono le situazioni che si creano, la fortuna, le coincidenze che ci sono in una gara. Nella squadra in cui gareggio adesso vale molto anche il fatto di voler davvero essere la leader in una gara. Per esempio ci sono alcune gare che sono nel mio cuore, che per me è un sogno vincere. Questo aspetto è importante per la squadra, quella emotiva è una motivazione in più che ti fa dare il 10% extra nel giorno della gara.
Lo sport per come lo conosciamo noi oggi è contrassegnato da una netta distinzione fra maschile e femminile. Soprattutto nell’ultimo periodo si sta riflettendo molto sul fatto che forse l’etichetta di genere andrebbe abolita. Come si posiziona il ciclismo in questo contesto, soprattutto in virtù del fatto che è uno dei pochi sport che prevede staffette a squadre miste. Secondo te è ancora necessaria una distinzione di genere?
In questo periodo ci sono molte discussione sul posto del ciclismo femminile all’interno del contesto sportivo. Domani (era il 2 Ottobre, nda) corriamo la prima edizione della Paris-Roubaix femminile, una gara che dagli uomini viene corsa da 125 anni. Ogni ragazza ha un pensiero diverso a riguardo. Il mio pensiero a riguardo è che il ciclismo per tradizione è sempre stato uno sport maschile, ma dobbiamo sfruttare questo aspetto per ottenere ciò che vogliamo noi cicliste: più gare, più visibilità.
Il confronto con il ciclismo maschile non ha un senso perché sono sport diversi. Le nostre gare sono più corte, sono più combattute e dinamiche rispetto a quelle degli uomini. Sono anche più belle da vedere. Noi dobbiamo rafforzare queste qualità del ciclismo femminile che di per sé sono diverse da quelle degli uomini perché noi siamo diverse dagli uomini.
Ma allo stesso tempo dobbiamo rifarci alla tradizione e a quanto il ciclismo è amato dal popolo in modo da avvicinare più gente possibile al ciclismo e da avere più visibilità possibile. È tutto incentrato su questo. Se abbiamo più visibilità gli sponsor sono più interessati a noi e c’è più possibilità per le ragazze di poterlo fare al 100%, di essere pagate equamente e di non essere sfruttate.
Cosa intendi quando dici che il ciclismo femminile è più dinamico?
Rispetto a quello maschile, nel ciclismo femminile c’è molto meno controllo in corsa. È un ciclismo più fantasioso, meno tattico.
Com’è la situazione del professionismo nel ciclismo italiano?
Non siamo considerate delle professioniste ma dilettanti. Al momento ci sono diverse leggi in ballo però in realtà la questione è piuttosto sospesa.
Io però ho avuto la fortuna di all’età di vent’anni di entrare nel corpo delle Fiamme Azzurre, che per me è sempre stata una sicurezza. Il ciclismo femminile pian piano sta crescendo anche dal punto di vista salariale ma fino a qualche anno fa molte ragazze correvano gratis.
Anche solo il fatto di avere una sicurezza economica per fare il tuo lavoro e anche la possibilità di pagare tutte le necessità come le visite mediche o i costi di preparazione fisica, è un enorme vantaggio. All’estero è un po’ diverso. In Olanda così come in Inghilterra le atlete che fanno sport a livello agonistico sono professioniste a tutti gli effetti. Chiaramente spero che anche in Italia arriveremo a questo punto anche se devo dire che nel anni olimpici soprattutto lo sport femminile riceve una bella spinta anche a livello mediatico. Bisognerebbe solo non dimenticarsene anche durante gli anni in mezzo.
Le tue tutele come sportiva quindi dipendono dal tuo contratto lavorativo con le Fiamme Azzurre. Ma per le tue colleghe che invece non lo sono, come si fa a guadagnare denaro nel ciclismo femminile?
Ogni atleta firma un contratto con la squadra di club che può essere un contratto lavorativo come no. Dipende dallo status della squadra con cui il contratto viene firmato. E quindi le atlete solitamente ricevono mensilmente un compenso salariale che può essere o un rimborso spese oppure un vero e proprio stipendio. In più vengono rimborsate tutte le spese che si devono affrontare per una gara. In realtà quindi una ragazza ha la possibilità di esercitare il ciclismo nell’80% dei casi. Il 20% è ancora una realtà di ragazze che lo fanno veramente per nulla, soprattutto in Italia.
Al momento tu fai parte di una squadra di club olandese. Come è arrivata la scelta di andare all’estero. Non penso fosse motivata dal professionismo dato che tu avevi già il tuo contratto lavorativo con l’Arma.
Esatto. Io sono stata per cinque anni in una squadra tedesca. Da quando ho lasciato l’Italia mi sono resa conto del fatto che mi piaceva di più la realtà straniera. E parlo di mentalità, di approccio alle gare e dei rapporti che si creano fra colleghe. Sono molto più lavorativi, e magari per certi aspetti c’è meno passione, devo dire, però questo ha risvolti anche positivi. Quindi tanti bisticci che possono accadere tra colleghe non avvengono, le donne sono molto più focalizzate sulla carriera e per loro questo è più un lavoro rispetto a come possiamo percepirlo noi in Italia.
Poi la mia scelta di passare ad una squadra olandese è anche dovuta al fatto che mi hanno cercata durante il lockdown, un fatto che per me è stata una sorpresa perché era un periodo di crisi non solo a livello sociale ma anche per lo sport in generale. Quando mi hanno contattata mi hanno detto di aver visto in me un potenziale che forse non era ancora stato espresso al suo massimo. A questo concorre il fatto di aver corso l’ultimo anno insieme ad Anna van der Breggen, la campionessa del mondo e campionessa olimpionica uscente. È un grande personaggio nel ciclismo femminile e per me avere l’onore di correrle accanto a di aiutarla a vincere alcune gare è stata una cosa che volevo provare nella mia carriera.
In altre nazioni come l’Olanda o la Germania c’è un atteggiamento completamente diverso nei confronti del ciclismo. La bicicletta è un oggetto vivo, di uso quotidiano. Tu credi che questa presenza costante della bicicletta nella quotidianità delle persone poi abbia un risvolto anche in una eventuale carriera sportiva nel ciclismo?
Sicuramente. Ma la differenza è proprio nella cultura, nell’educazione. In Italia una bicicletta in strada è un fastidio. In Germania o in Olanda o Belgio qualcuno che va in bicicletta è sacro. Tante volte mi capita di allenarmi in Italia e magari mi trovo un trattore davanti e mi tocca superarlo se va troppo piano. Nessun guidatore urla o sbraita come invece farebbero contro un ciclista o, nemmeno a parlarne, con due ciclisti accoppiati. Quello che mi solleva è che vedo sempre più gente appassionata alla bici e quando io mi alleno percepisco chiaramente questo sentimento degli automobilisti. Dalla bici si percepisce quale automobilista è appassionato alla bici e quale no. Quello che non è appassionato magari ti passa a tanto così, ti suona; l’appassionato invece ti rispetta, ti lascia almeno un metro e mezzo per continuare a pedalare. Il grosso problema poi è che mancano le piste ciclabili. Se ce ne fosse la possibilità le userei; anzi quando ci sono le uso. Questa potrebbe essere una buona opportunità per incentivare il ciclismo.
Gli aspetti che tu hai appena delineato che influenza hanno di fatto sulla carriera sportiva di una ciclista?
Mi rendo conto che ci sono molti genitori che notando quanto può essere pericoloso andare sulle strade magari smettono di far correre i figli quando è arrivato il momento di passare dal pistino chiuso e al sicuro alla strada. Immagino che questo passaggio possa creare preoccupazioni. Ma non dovrebbe essere così, ci dovrebbero essere condizioni diverse. La differenza principale con le mie compagne di squadra olandesi è che per loro andare in bici è normale da sempre e da questo dipende anche il fatto che abbiano più talenti. Il bacino è più largo all’inizio. Quando hanno dieci anni tutti vanno in bicicletta. In Olanda il ciclismo è uno sport nazionale perché ci sono dei grandi campioni. È tutto collegato.
Ultima domanda. Quella scottante e che ha a che fare con la tua presenza mediatica che è spesso collegata al fatto che tu sei la compagna di un altro grande atleta. Come la vivi tu?
È una cosa che non mi ha mai pesato più di quanto dovrebbe. È ovvio, quando vengo solamente messa accanto ad Elia come la sua fidanzata, ne sento il peso perché sto ancora vivendo il pieno della mia carriera. E magari non ho avuto gli stessi risultati che ha avuto Elia però comunque sai anche io le mie soddisfazioni sono riuscita a crearmele e a vivermele. Ho un po’ una visione zen, soprattutto sul mondo giornalistico in generale perché questo è fra l’altro una cosa che mi piacerebbe fare in futuro, essere una giornalista e raccontare dello sport che amo, ma devo dire che ci sono molti giornalisti che cercano sempre di metterti un po’ fuori dalla comfort zone.
Credo che a nessuna donna piaccia essere ricordata solo se affiancata al nome del proprio compagno. Però sia io che Elia teniamo questi aspetti fuori dalla nostra relazione e per me è importante sapere quanto Elia sia il primo a spingermi a fare questa carriera al massimo delle mie potenzialità ed è anche il primo che magari quando andiamo sul discorso che riguarda anche un futuro come madre, che quindi andrà ad influire sulla mia carriera sportiva, mi dice di smettere quando non avrò più rimpianti, quando sarò sicura che è il momento di farlo. Elia è il mio primo supporter, quindi quello che scrivono i giornali mi tocca fino ad un certo punto.
Sarebbe più equo però se i giornali vi rappresentassero a turno l’uno come il compagno dell’altra e viceversa ma basta una rapida ricerca online per notare che questa cosa va in una direzione sola.
È vero. Ma è un atteggiamento che va ad inserirsi in un più ampio contesto culturale delle testate giornalistiche. Qualche giorno fa sono stata un pochino critica sui social perché con Elisa Balsamo abbiamo vinto sabato scorso il mondiale di ciclismo ed è stato il coronamento di un lavoro di squadra, una bellissima giornata per il ciclismo femminile a livello mondiale. Tutto quello che il giornale sportivo italiano ha fatto è stato dare la prima pagina al calciatore di turno e a noi uno spazio minimo, visibile solo con la lente d’ingrandimento. Il giorno dopo un francese ha vinto il Mondiale e il corrispettivo giornale francese gli ha dedicato l’intera prima pagina. È proprio una questione culturale. Ed è per questo che la questione con Elia è più grande di me e che mi piacerebbe migliorare o cambiare ma che al momento è una cosa grossa. Quello che faccio io è separare ciò che leggo rispetto a ciò che vivo.
Flèche di Mary Jean Chan (Faber & Faber): se la scherma diventa poesia
di Olga Campofreda
Finalmente è successo che qualcuno ha attinto a piene mani all’alto potenziale poetico della scherma e ne ha fatto non una poesia, ma un intero libro. Per questo rarissimo e tuttavia azzeccatissimo accostamento di sport e poesia dobbiamo ringraziare Mary Jean Chan, ma anche l’editore inglese Faber & Faber che ha pubblicato la raccolta, vincitrice del Costa Book Award 2019. Lo stesso premio nel 2018 era stato vinto nella categoria ‘Romanzo’ da Sally Rooney con Normal People: cito l’aneddoto non solo per il gusto di un po’ di sano clickbait, ma anche per dare l’idea dell’anima ‘pop’ di questo riconoscimento. Trovo interessante pensare a quanta visibilità due categorie minori come ‘poesia’ e ‘scherma’ siano riuscite a ottenere mettendosi insieme.
La raccolta si chiama Flèche (letteralmente “frecciata”), che è il nome francese dato a un movimento d’offesa in cui lo schermidore si lancia verso il bersaglio avversario, un salto nel vuoto calcolato sul tempo e sulla distanza dal corpo dell’altro. Quando ben eseguito, il colpo viene vibrato durante quei pochi millesimi di secondo in cui l’atleta è sospeso da terra, senza punti di contatto con la pedana. Ma flèche, come spiega Chan, ha anche il suono dell’inglese flesh, carne, che evoca la concretezza dei corpi e la loro vulnerabilità.
Chan è una poeta di origini cinesi (e i pronomi che indica su instagram sono she/they). Cresciuta a Hong Kong, è lì che ha imparato a tirare di scherma, rappresentando prima la sua scuola e poi il suo Paese in gare nazionali e internazionali. Attualmente vive a Londra e insegna scrittura creativa alla Oxford Brookes University.
“È una raccolta che esamina quelle relazioni che sono al tempo stesso conflittuali e tenere,” ha raccontato Chan in un’intervista al Poetry Translation Centre, “un po’ come la spadista che deve costantemente rinegoziare la strategia in base a quella dell’avversaria durante un incontro”.
La scherma offre i termini tecnici e le immagini per raccontare la minoranza etnica, l’identità queer, le dinamiche sociali e quelle dell’innamoramento per chi parte dal margine e ha bisogno di una maschera al tempo stesso per proteggersi e ridefinirsi da capo.
La raccolta è divisa in tre parti, che Chan ha chiamato come i tre fondamentali della tecnica schermistica.
Parry [parata] è la sezione d’apertura, quella in cui le poesie raccontano dell’infanzia e della scoperta di sé, la consapevolezza di essere diversa e anche la paura di affacciarsi al mondo privi di difese. A questa sezione appartengono i versi di Practice, una poesia che racconta l’allenamento come gioco di identità ed affetti malcelati, i corpi che feriscono animi che feriscono corpi.
As a teenager, fencing was the closest thing
I knew to desire, all the girls swapping one
uniform for another before practice, their white
dresses replaced by breeches. I thought we were
princes in a fairy tale with a twist, since
there were no princesses to be taken, wed.
[...]
[Da adolescente, la scherma era la cosa più vicina al desiderio/ che conoscessi, tutte le ragazze che scambiavano un’uniforme con l’altra/ prima dell’allenamento/ i loro vestiti bianchi sostituiti dai calzoni. Sembravamo principi/ in una favola ma un po’ diversa/ perché non c’erano principesse da prendere e sposare.]
La divisa di scherma diventa una tela bianca che elimina le differenze e nasconde i segreti, come i lividi che restano sulla pelle, unico ricordo di un contatto desiderato e atteso, da portare a casa:
[...] Just as often, I would feel yellow
blooms of ache where the girl I thought was beautiful
had pierced my heart.
[Spesso, sentivo fiorire un livido giallo/ là dove la ragazza che ritenevo bellissima/ mi aveva colpito il cuore.]
La seconda sezione si chiama Reposte [risposta]. In termini schermistici, con questo termine si indica il colpo tirato dopo una parata. Come nella dinamica della pedana, in questa sezione le poesie mettono insieme immagini più vitali e coraggiose, raccontando l’esperienza di un soggetto queer che decide di vivere apertamente la propria identità di genere. Si attraversa la storia di una relazione, si affrontano sedute di psicoterapia, si ripercorre il rapporto con la madre, che resta al centro di una tensione mai completamente risolta.
“Risposta” è l’azione di attacco dopo una difesa: è così che Chan, imparando dalla scherma, ha rivisto le dinamiche della sua vita.
L’ultima sezione si chiama Corps-à-Corps [corpo-a-corpo]. È l’azione in cui i corpi dei due schermidori arrivano a pieno contatto. Non sono più solo le lame a sfiorarsi: la vulnerabilità e il contatto sono totali. È qui che l’arbitro interrompe l’incontro. La poesia di questa sezione racconta la tensione della relazione quando il sentimento diventa intenso e i due soggetti, compenetrati, ma mai del tutto, si trovano a contrattare i propri confini e quelli dell’altro. Proprio come nella scherma, you never duel against the same person, even if it is the same person [non combatti mai contro la stessa persona anche se è la stessa persona].
Mary Jean Chan è stata una schermitrice per circa dodici anni, se mai si smette di esserlo. Lei stessa nella raccolta riporta l’aneddoto da cui tutto ebbe inizio: nel gruppo di teatro, a scuola, serviva con urgenza uno spadista per rappresentare una tragedia di Shakespeare, e allora lei si era fatta avanti. La pratica sportiva e quella poetica hanno lo stesso punto d’inizio.
La bellezza di una raccolta come Flèche sta nella stratificazione delle metafore a partire da un uso sapiente e preciso del linguaggio sportivo. La scherma diventa poi l’immagine per misurare la distanza tra i corpi e il potere del desiderio:
Footwork
Changing into school uniform felt like cross-dressing. I took my time: removing mask, then chest protector, lingering at the breeches. The day I learnt to lounge, I began to walk differently, saw distance as a kind of desire. Once, my blade’s tip gently flicked her wrist: she said it was the perfect move.
[Gambe-scherma (esercizi specifici per le gambe, ndt)
Cambiarsi nell’uniforme della scuola sembrava come travestirsi. Mi prendevo il mio tempo: mi toglievo la maschera, poi il corpetto, indugiando quando arrivavo ai pantaloni. Il giorno in cui ho imparato a fare l’affondo, ho iniziato a camminare diversamente, ho percepito la distanza come una forma di desiderio. Una volta, la punta della mia lama ha toccato con leggerezza il suo polso in un colpo di fuetto: lei ha detto che era il colpo perfetto (il fuetto, ‘flick’ in inglese, consiste nel lanciare la lama in direzione del bersaglio come una canna da pesca, sfruttando l’elasticità della lega metallica di cui l’arma è fatta, ndt)].
Le poesie di Chan sono un esperimento linguistico e letterario in cui per la prima volta il linguaggio sportivo viene usato come bagaglio metaforico per strutturare un intero libro. È un po’ la rivincita dei termini tecnici che qui diventano formule magiche, un linguaggio misterioso ed esotico per iniziati, forse ancora più potente proprio per via di questo suo essere oscuro ai più. Alla base di un libro del genere sta un fatto decisivo in cui credo fermamente: che lo sport, qualsiasi sport, quando affrontato con dedizione, compenetra la visione del mondo di chi lo pratica. Se a praticarlo è un poeta, poi succedono cose così, che un pomeriggio di allenamento diventa la vita intera.*
***
*Mille grazie a Livia Franchini per avermi detto dell’esistenza di queste poesie
P.S. tutte le poesie sono state tradotte da Olga Campofreda
Olga Campofreda è ricercatrice di letteratura e cultura italiana. Vive a Londra e quando non è in British Library lavora come maestra di scherma. Il suo ultimo libro è “Dalla generazione all’individuo: giovinezza, identità, impegno nell’opera di Pier Vittorio Tondelli” (Mimesis 2020).
Due o tre cose che abbiamo fatto in giro in queste ultime settimane
Podcast Retroguardia ha invitato me (Giorgia) ed Elena Marinelli a parlare di sport femminile, calcio e Goleadora – il nostro podcast sul calcio femminile. La puntata si chiama ovviamente “Goleadore” e fa ridere un sacco.
Ancora Elena ha scritto un pezzo sulla newsletter Senza Rossetto. Si chiama Dilettanti e Professioniste e insomma, già dal titolo avrete capito su cosa verte.
Due o tre cose che abbiamo letto in giro in queste ultime settimane
Il Post ha un Hashtag che si chiama “sport femminile”. Un recente pezzo derubricato qui sotto si chiama “Lo sport femminile comincia ad essere interessante anche per gli investitori”.
Una foto che ci è piaciuta questo mese
Candace Parker festeggia l’anello e il titolo WNBA vinto alla sua prima stagione con le Chicago Sky – a 35 anni she is still in the Sky.
E un pezzo che abbiamo ascoltato molto, moltissimo, ripetutamente
Ti ricordo che la shopper di Zarina è tornata e la puoi avere (e con essa diffondere l’hype in giro per l’Europa) pigiando questo bottone rosa
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