Bentornat* a Zarina, la newsletter che ha saltato il mese di Settembre (Wake me up when September ends, ricordate?) ed è passata direttamente ad Ottobre.
La Zarina di oggi è Wilma Rudolph, velocista nel 100 e 200 metri che ha cambiato la storia dell'atletica in occasione delle Olimpiadi di Roma 1960. Non sapevo niente di lei, fin quando mio padre non mi ha mandato un Whatsapp che diceva: «Wilma Rudolph per un tuffo nel 1960 a Roma, che ne dici? Partì dalla polio guarita con caparbietà».
E in qualche modo questo numero è anche dedicato ai genitori che almeno una volta nella vita hanno accompagnato i loro figli ad un allenamento e sono rimasti a morire di freddo sugli spalti o agli angoli di un campo qualsiasi. Senza di loro oggi non esisterebbe Zarina.
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INIZIAMO
Nel 1995 esce una campagna pubblicitaria della Nike che cambierà in un certo senso il modo in cui da quel momento in poi una multinazionale di abbigliamento sportivo cercherà di vendere scarpe e tute ad un pubblico femminile. La campagna in questione è un video corale che ritrae alcune bambine fra i dieci ed i quattordici anni che affermano: “if you let me play”, se mi fai giocare, seguito da una serie di motivi per cui il gioco potrà essere un mezzo di conquista per loro.
“If you let me play, if you let me play sports …” “I will be 60 percent less likely to get breast cancer … will suffer less depression … will be more likely to leave a man who beats me … less likely to get pregnant … I will learn what it means to be strong. If you let me play … play sports. If you let me play sports.”
(Se mi fai fare sport.. Le mie possibilità di contrarre un cancro al seno diminuiranno del 60%. Sarò meno soggetta alla depressione, avrò più probabilità di lasciare un uomo che mi picchia, sarò meno soggetta a essere messa incinta, imparerò cosa significa essere forte. Se mi fai fare uno sport..uno sport. Se mi fai fare uno sport).
Al tempo dell’immissione in televisione la campagna della Nike, scritta e prodotta esclusivamente da donne, ebbe una ricezione molto positiva da parte del pubblico. Vizhier Corpus, allora portavoce dell’azienda americana, parlava di un 90% di commenti positivi. Il segreto della potenza di questa pubblicità non è per niente difficile da decifrare: la rappresentazione indifesa di queste bambine fa capitolare emotivamente ognuna delle donne seduta davanti al televisore. La conferma arriva dalla dichiarazione della psicologa sportiva Marj Snyder, «in quanto donna quello che provi è: quella avrei potuto essere io da bambina. Io mi sentivo così, e non sono riuscita a giocare». Inoltre Corpus dichiara apertamente che la campagna era stata scritta, diretta e pensata per i genitori di quelle bambine: «lo sport non è meno importante per le bambine che per i bambini. Se sei un genitore interessato a crescere una bambina forte fisicamente ed emozionalmente, allora guarda allo sport come un mezzo per questo scopo».
Il discorso intorno allo sport come strumento di empowerment per le bambine e le ragazze è uno dei cuori pulsanti del metodo con cui negli ultimi tempi si sta parlando di sport. Sembra che ci voglia davvero una motivazione seria per cui una bambina debba avere voglia o interesse a praticare uno sport - il divertimento fine a se stesso non è abbasta, perché probabilmente una bambina dovrebbe divertirsi di più a inventarsi una storia d’amore fra Barbie e Ken oppure dovrebbe trovare più interessante iniziare a scoprire la moda o il make up.
E questa è una scelta, solo uno dei modi possibili per arrivare a fare sport - molte atlete raccontano di come il loro sport le abbia salvate da una situazione che altrimenti le avrebbe messe in pericolo di vita. Famiglie disastrate, povertà, maltrattamenti o incomprensioni di tipo culturale e religioso.
Ma il messaggio promulgato dalla Nike nel 1995 è innovativo per due motivi: incoraggia le bambine a sbucciarsi le ginocchia in nome delle donne che saranno e mette in evidenza l’importanza attiva del ruolo genitoriale nella possibile genealogia di un o una atleta. Le sorelle Williams, Andre Agassi, Becky Hammon, Regina Baresi, sono solo alcuni esempi degli atleti che per discendenza o desiderio devono l’inizio della loro carriera ad una figura genitoriale che li ha spinti ad essere la versione migliore di loro stessi. Immagino che molti di noi possano dire di essere stati accompagnati ad un allenamento da un padre o una madre che sono rimasti lì ad aspettare dall’inizio alla fine, seduti sugli spalti o al freddo ai bordi del campo di calcio. E questo è amore. Ma ci sono stati certi altri genitori che hanno fagocitato la fase dell’attesa ai bordi del campo e sono diventati allenatori loro stessi, o modelli, o forse, più importante di tutto, motivatori per i loro ragazzi.
Da adulti è più facile leggere il futuro, basta guardarsi all’indietro per dare un buon consiglio ad un ragazzino.
«È stato mio padre a spingermi a diventare competitiva», ha detto Wilma Rudolph già nel 1978, «Con così tanti bambini se ti divertivi a fare qualcosa con uno, ne arrivava subito un altro. Aveva la sensazione che questo mi avrebbe aiutata a superare i problemi».
Wilma Rudolph nasce nel 1940 a Clarksville (Tennessee) in una famiglia affollatissima. Il padre e la madre si legano in secondo matrimonio e dalla sommatoria di tre riti di unione risultano ventuno figli, oppure ventidue a seconda delle fonti. Sin da piccola Rudolph è di salute abbastanza cagionevole e alla sola età di quattro anni si ammala prima di polmonite e poi di scarlattina. All’età di otto invece si aggiunge la poliomielite che le paralizza la gamba sinistra e la costringe a camminare con l’ausilio di un tutore. La famiglia Rudolph ha possibilità limitate e l’unica cura che il medico di una cittadina del Tennessee riesce a mettere in piedi è una massaggio giornaliero di almeno quattro ore. E così, se da una parte avere così tanti fratelli e sorelle in un certo senso reprime il carattere di Wilma già di per sé abbastanza appartata, dall’altra corrisponde ad avere un numero molto alto di braccia disposte ad avvicendarsi per massaggiare una gamba pressoché inferma.
Dopo tre anni di massaggi, un pomeriggio qualsiasi la madre trova Wilma in cortile a giocare a basket a piedi nudi. Poco dopo la ragazza entrerà a far parte della squadra di pallacanestro della scuola, diventandone una delle giocatrici di punta. Ed Temple, un insegnante afroamericano della scuola di Wilma la vede, ne percepisce il talento e ne osserva le gambe lunghissime e magre. Ha una visione e la mette alla prova sulla pista di atletica. Wilma Rudolph vola sulla pista rossa, letteralmente.
Il tempo è sempre dalla parte di chi si fissa. Prima o dopo arriva il momento in cui l’atto sfinente di allenarsi a fare qualcosa nel modo migliore possibile si tramuta in un gesto atletico perfetto.
Wilma dimostra subito un talento intuitivo per la corsa, una capacità istintuale di gestire quella stessa gamba che solo qualche anno prima era inferma. Arriva alle Olimpiadi nel 1956 a soli sedici anni. È un esordio in sordina, una prova generale di una grandezza che ha ancora da venire, da cui ritorna comunque con una medaglia di bronzo nella staffetta 4x100 m.
Dei quattro anni che intercorrono fra le due edizioni dei giochi olimpici non si sa niente. Le ricerche non portano a molto, anche perché tutto quello che c’è da sapere è che probabilmente Wilma Rudolph si allena tantissimo. Nel tempo di mezzo fra le sue due Olimpiadi costruisce dietro le quinte una serie di prestazioni che cambieranno il modo in cui si correranno le gare di velocità nell’atletica. I giochi di Roma 1960 infatti saranno un vero e proprio panegirico alla ragazza americana più veloce del mondo.
A Roma Rudolph si qualifica alla finale dei 100 m - la sua specialità insieme ai 200 m - con relativa facilità, ma nel giro di prova che precede il giorno della gara decisiva l’atleta inciampa in un buco e si distorce la caviglia. Fa un paio di tentativi, controlla, e poi decide di prendere parte alla finale olimpica nonostante la caviglia gonfia. Il giorno dopo Rudolph è sul blocco di partenza, la pistola spara e lei resta allineata al gruppo giusto per qualche secondo, il tempo che le serve per allungare la sua falcata all’arco massimo e lasciarsi tutte dietro. Il tempo finale è di 11 secondi netti, allora un record mondiale che tuttavia non viene registrato a causa di un vento troppo forte. Dietro di lei arrivano l’inglese Dorothy Hymann e l’Italiana Giuseppina Leone.
Guardare Wilma Rudolph nell’atto della corsa è un’attività che definirei estetica. Mi scopro a riaggiornare in continuazione la pagina dei video di quelle finali a Roma alla ricerca di una angolatura diversa, o di un dettaglio che non sono riuscita a carpire da qualche altra parte. Il punto è che non c’è molto altro da vedere, quello che Wilma Rudolph ha raggiunto in una sola edizione delle olimpiadi è come un’opera prima geniale dopo la quale l’artista decide di smettere perché, come dirà lei stessa: «non avrei mai più potuto raggiungere ciò che avevo fatto, e quindi sarò ricordata nel mio momento migliore».
Tre giorni dopo l’oro nei 100 m Wilma si trova nella corsia più interna della pista della finale dei 200 m. Anche in questo caso resta nella fila per poco - ma una volta che le atlete hanno voltato l’ultima curva Rudolph si trova nettamente davanti rispetto alle altre. Lo sprint finale è una vittoria annunciata, la distanza è netta e la bellezza del gesto atletico è tutta racchiusa in questa immagine che la ritrae in una posa da statua marmorea di età ellenistica. Rudolph porta a casa anche l’oro nei 200m davanti alla tedesca Jutta Heine e di nuovo a Dorothy Hymann.
Eppure c’è ancora una medaglia da conquistare, nella staffetta 4 x 100 m. Non per se stessa che ne aveva già due, dichiarerà lei, ma per le sue compagne di squadra. «Dovete fare solo in modo che mi arrivi il testimone e vi prometto che avremo una medaglia», pare che abbia detto loro. Una affermazione scevra di presunzione, ma più che altro una frase empirica: Wilma si stava limitando a dire ciò che aveva visto due volte in quella stessa edizione olimpica. La gara ovviamente resta sospesa fin quando il testimone non arriva fra le sue mani. A quel punto Rudolph si mette in movimento e va più veloce di tutte le altre.
A Roma Rudolph partecipa a nove gare arrivando sempre in prima posizione con netto distacco su tutte le altre atlete. Wilma si presenta a ritirare le sue medaglie una dopo l’altra con l’espressione gentile, tiene sempre in mano un cappello di paglia bianco che a volte ripone sulla testa prima di scendere dal podio.
A chi le chiede se ha qualche ripianto Wilma Rudolph non risponde mai di essersi ritirata forse troppo presto nonostante dopo Roma 1960 la sua carriera atletica andrà avanti solo per altri due anni. La necessità di un lavoro per sostenersi e la difficoltà di trovare un supporto economico in quanto atleta afro-americana la costringeranno a lasciare prematuramente la pista. Quello che farebbe diversamente, dice lei, è in ambito politico: «Avrei combattuto per la parità dei diritti e la discriminazione degli afro-americani».
Già in occasione dei giochi olimpici di Roma la nazionale USA aveva portato in Europa una squadra composta da numerosi atleti afro-americani. Uomini e donne che per due settimane sarebbero scesi in campo a competere per la gloria di una nazione che una volta tornati a casa li avrebbe discriminati in ogni ambito possibile. Ralph Boston, vincitore a Roma di una medaglia d’oro nel salto il lungo, ricorda in questo modo i giorni che precedettero il volo di ritorno dalle olimpiadi di Roma: «Gesù, dovevo andare di nuovo in America e non riuscivo a smettere di pensare che sarei tornato ad essere di nuovo un negro».
E infatti le tre medaglie d’oro conquistate da Rudolph non erano servite a niente quando una volta messo piede nella sua cittadina d’origine, l’allora governatore del Tennessee Buford Ellington, forte sostenitore della segregazione razziale, spense tutti i preparativi per la festa di accoglienza in onore della velocista americana. Wilma si opporrà a questo trattamento, riuscendo a vincere lo scontro diretto con Ellington e alla fine la cerimonia si terrà con un pubblico misto di bianchi e afro-americani. Una piccola vittoria che nell’economia della storia dello sport non ha cambiato niente se poi nell’agosto 2020 gli atleti afro-americani di NBA e WNBA si sono ritrovati ancora una volta a chiedere rispetto e diritti per la loro comunità, soprattuto perché, come ha detto Ariel Atkins (guardia delle Washington Mystics): «non siamo solo giocatori e giocatrici di basket, siamo molto di più di questo. Quando torniamo a casa siamo ancora donne di colore nel senso che le nostre famiglie sono importanti».
Le conseguenze di questo trattamento per Rudolph sono immediate, le tre medaglie olimpiche non bastano a convincere qualcuno a continuare ad investire nel suo talento. Nel 1962 l’atleta porta a compimento i suoi studi universitari e si ritira ad una vita normale: una lavoro, un marito, dei figli. Una vita domestica di cui non sappiamo molto, quel tenore di vita che Betty Fridain non avrà paura di chiamare “il problema che non ha nome”.
Gli anni Sessanta sono un momento importante per l’educazione fisica femminile. Finalmente nasce anche per le ragazze una dimensione espressiva che ha a che fare con il loro fisico fisico, tanto è vero che a correre la finale per i 100 m insieme a Rudolph c’è pure Giuseppina Leone, una velocista che alle Olimpiadi di Roma era già arrivata con almeno otto anni di esperienza a livelli altissimi e una vagonata di medaglie pesanti.
Eppure per Wilma Rudolph la situazione è diversa e le sue tre medaglie d'oro non bastano a cancellare il colore della sua pelle.
Dobbiamo fare un passo avanti. Motivare le bambine è importante, supportarle lo è ancora di più. Se non si hanno soldi per avere il lusso di passare otto o nove ore al giorno ad allenarsi, nessuna potrà raggiungere i livelli più alti. Una pista tutta per sé. Rudolph si è ritirata con all’attivo quattro medaglie nel giro di due olimpiadi e una manciata di anni di attività. Cosa sarebbe accaduto se non avesse dovuto lavorare?
La riposta implicita arriva nel 1981. Wilma Rudolph fonda la “Wilma Rudolph Foundation”, una fondazione che chiaramente supporta economicamente atleti ed atlete afroamericani. «Se qualcosa di me è rimasto», dice al NY Times, «è questa fondazione».
Wilma Rudolph se ne va che è ancora molto giovane nel 1994 a causa di un tumore al cervello. Un’altra di quelle separazioni premature a cui ci aveva abituati. A chi le chiedeva come facesse a correre così veloce, lei rispondeva sempre: «non lo so. Corro e basta».
1. Le magliette ufficiali delle calciatrici Tobin Heath e Christen Press, appena arrivate al Manchester United femminile, hanno venduto più di quelle dei giocatori della squadra maschile. Ubi maior minor cessat.
2. Secondo noi non si parla mai abbastanza di salute mentale degli sportivi. Kayla McBride - giocatrice WNBA nelle file delle Las Vegas Aces - racconta che anche per una atleta è ok andare a pezzi.
3. L'articolo per certi aspetti è patronising, ma vale la pena leggere qual è il punto di vista di Pau Gasol sulle allenatrici femminili in NBA - lui che ne ha avuta una, la stilosissima Becky Hammon.
1. Su Ultimo Uomo è uscito un mio articolo su Ramla Ali, la prima pugile musulmana ad aver vinto il titolo inglese.
2. Sul Fatto Quotidiano è uscita un'intervista che racconta come è nata Zarina e qual è la nostra missione.
Nina Simone ha scritto Mississippi Goddam nel 1964 come atto di critica e dolore in seguito al bombardamento di una chiesa battista in Alabama. Quattro membri locali del Ku Klux Klan avevano innescato 19 candelotti di dinamite uccidendo così quattro bambine e ferendo altre venti persone afroamericane.
Questo così, per dare un po' il polso di cosa attendeva a casa gli atleti al ritorno dal vagare per il mondo in cerca di medaglie per la propria nazione.
E ricorda