High Five! Sei su Zarina.
Come al solito mi presento. Io sono Giorgia e ti mando questa newsletter sullo sport femminile una volta al mese, l’ultimo sabato del mese.
Zarina racconta le storie di ragazze affascinanti in tuta da ginnastica, ogni donna che ha una storia legata al mondo dello sport, non importa se come atleta in senso stretto o come persona che ha fatto dell’attività sportiva un capitolo importante della propria vita.
Nel settembre del 2009 ero appena tornata a Pisa dal mio Erasmus ad Heidelberg. Erano giorni sospesi in cui mi sorprendevo di fronte al fatto che tutte le persone che mi stavano intorno parlassero italiano e la vita così come l’avevo lasciata dodici mesi prima era scomparsa. Due settimane dopo il mio atterraggio in Italia ero ripartita per uno scavo archeologico ad Adana, in Turchia. Mi aspettava un mese di sveglie alle cinque, turni per lavarsi la faccia con acqua gelida mentre nei corridoi del convento cattolico in cui noi archeologi alloggiavamo Poker Face di Lady Gaga andava a palla.
Passammo quei trenta giorni indossando un unico paio di pantaloni con la terra dello scavo incrostata all’altezza delle ginocchia e maglie di cotone chiaro con le chiazze di sudore sotto le ascelle. Mangiavamo pane e formaggio che il più delle volte affettavamo su un foglio di giornale poggiato sul terreno. La maggior parte del tempo la trascorrevamo piegati su uno strato di terra che analizzavamo e poi raschiavamo via con un gentile movimento del polso che terminava in una trowel dai bordi sbreccati. Eravamo tutti immersi in lunghi istanti di silenzio in cui, con la dovuta sensibilità, si poteva sentire il rumore delle gocce di sudore atterrare sullo strato archeologico che stavamo esaminando per poi evaporare immediatamente una volta sfiorata la terra ardente del sole turco.
In quei momenti mi chiedevo cosa stavo facendo. Era una domanda martellante che riguardava il perché mi fossi ostinata ad inseguire un sogno di bambina con una testardaggine tale che poi tutti quegli anni dopo mi aveva portato a fare qualcosa che per me si era svuotata di significato. Scavare, cercare, comprendere, collegare erano cose che avevo imparato nelle aule universitarie, ma la frustrazione che provavo di fronte alla domanda: cosa sto cercando?, mi faceva spazientire.
La verità è che io volevo essere una giocatrice di pallacanestro professionista, ma lo studio era sempre stato un cuscinetto che doveva esserci. Giocare in serie A sarebbe stata fortuna, un lusso, non di certo una scelta realista come poteva esserlo studiare per una maturità classica ed una laurea con il massimo dei voti. E a forza di sentirle certe paure degli altri, poi ad un certo punto diventano anche le tue.
Nei giorni di Adana la pallacanestro l’avevo smessa da un po’ e fra noi non era finita bene. Dai miei 20 anni in poi non avevo mai più messo piede dentro ad un palazzetto, e se qualcuno accidentalmente parlava di basket, io cercavo sempre di cambiare argomento. L’archeologia era l’alternativa che avevo scelto per me. Ma è successo in una di quelle mattine piegata sullo strato che ho sentito che l’alternativa al vero amore della mia vita era solo un ripiego, e che con i ripieghi non ti ci puoi accompagnare fino alla fine senza impazzire.
Adesso quando cerco le storie, quando ascolto le storie e poi le riscrivo mi rendo conto di riprendere il discorso dalla posizione scomoda di chi sta accovacciato per ore sotto il sole cocente della Turchia con lo sguardo fisso su un dettaglio infinitesimale come potrebbe essere l’impercettibile cambio di colore della terra che compone uno strato. Gli anni della mia persona archeologica sono la reazione alla mia carriera mancata nel basket ma sono anche il metodo che oggi mi ha portato qui a fissarmi su una storia finché non vedo dove va a poggiare le sue fondamenta. Questi due aspetti da qualche parte si tengono e forse non è facile individuare esattamente dove, ma è la sensazione che basta a farmi riappacificare con quei momenti.
Il lavoro e lo sport dentro il campo sono una coppia minima che le atlete donne conoscono fin troppo bene. In molte categorie – persino nella serie A – questi due aspetti convivono e si tengono per mano perché senza un polo, l’altro non può esistere. I costi di questa necessità sono certamente altissimi, chissà quante atlete di prima fascia abbiamo perso per strada perché ad un certo punto hanno dovuto iniziare a lavorare davvero per mantenersi.
Ma ci sono anche storie alternative che ci offrono una narrazione possibilista, ricca di nuance. E di questo è testimonianza l’intervista di Valentina Forlin a Marta Carissimi, ex calciatrice di Serie A e oggi commentatrice tecnica per la Rai e DAZN. Un dialogo che fa perno proprio sulla dualità sport/carriera e che ci mostra una terza possibilità che sempre troppo poco spesso viene presa in considerazione. Il pezzo poi si apre con un breve memoir di una ragazza di provincia che inizia a giocare in una squadra maschile e impara molto presto che il calcio non è un mestiere per donne. Una pennellata che mi ha fatto venire voglia di andare a cercare le mie prime scarpe da basket dimenticate in qualche scatola in garage.
Apriamo le danze.
La Zarina di Novembre è Marta Carissimi
Il calcio (non) ti darà da mangiare
Intervista a Marta Carissimi
di Valentina Forlin
Quando a sette anni chiesi a mio padre se anche io come i miei amici potessi iniziare a giocare a calcio, lo feci con la timidezza di una bambina che chiede il bis di dolci malgrado la ramanzina sui troppi zuccheri e le carie sia all’ordine del giorno. Mio padre non era pronto per questa domanda e rispose in maniera titubante dicendomi che non era sicuro che potessi farlo perché vicino a casa c’erano solamente squadre maschili. Nonostante tutto, in virtù della mia insistenza quotidiana, un giorno mi disse che avrei potuto iniziare nella squadra di paese dove giocavano anche i miei compagni di classe.
Ricordo ancora in maniera nitida i palloni colorati dei primi calci, le Puma bianche e nere che conservo gelosamente in soffitta e quel borsone granata più grande del mio stesso busto. Ricordo ancora i bambini diffidenti, lo spogliatoio diverso per cambiarmi, la gioia del primo gol in un campo delimitato da conetti variopinti e la foto di Carolina Morace su un ritaglio di giornale. Ricordo i primi parastinchi, il momento in cui prima della partita li posizionavo perfettamente in copertura della gamba credendo che fossero la mia armatura.
Ricordo poi la crescita, la passione, i tredici anni e la prima squadra femminile. Quando scoprii per puro caso che il tecnico dell’ascensore del mio condominio era il presidente dell’unica squadra femminile della mia provincia rimasi totalmente perplessa. Era come se non mi piacesse l’idea di non essere l’unica ragazzina outsider in questo sport di maschi. Tuttavia, il divario fisico con i miei coetanei si faceva sempre più grande. C’era un ragazzino, Hassan. Non ci piacevamo. La sua attività preferita durante gli allenamenti era provocarmi e infastidirmi, mentre io volevo solo batterlo in partitella per guadagnarmi la stima dei miei compagni. Così fu. Quando a 13 anni anche Hassan riusciva a sovrastarmi per via della sua imponenza fisica mi sentii vagamente umiliata e pensai che andare a giocare con le ragazze non sarebbe stato poi così male.
I lunghi anni passati tra la squadra del Belluno e quella del Vittorio Veneto sono stati anni indimenticabili. Anni di lotte, anni di compleanni passati in qualche campo della regione, anni di treni, freddo, pioggia, fango, gioie. Non ho mai saltato un allenamento. Nemmeno uno. Nemmeno per la verifica di matematica il giorno dopo, e io in matematica ero negata. A Vittorio ci si allenava nel campetto parallelo a quello della prima squadra e anche se non ci eravamo mai parlate, io le giocatrici le conoscevo una ad una. Quando non le vedevo allenarsi era come se mi deludessero: come potevano saltare un allenamento? Ne parlavo con mia nonna tornando a casa e mi faceva notare come queste ragazze, oltre a giocare, lavorassero. “Ma io non voglio lavorare, io voglio giocare a calcio”, dicevo io.
Il disincanto della fanciullezza arrivò molto presto e iniziai a fare i conti con la realtà: il calcio non mi avrebbe dato un futuro. “Il calcio non ti darà da mangiare, lo studio sì”, diceva mia madre arrabbiata ogni volta che fingevo di aver fatto i compiti per guadagnare un’ora di campetto in più.
Io faccio parte della categoria di ragazze che hanno mollato, faccio parte di quella categoria di ragazzine a cui è stato detto di scendere dalle nuvole, e che dalle nuvole sono scese perché un’alternativa sembrava non esistere.
Per fortuna poi c’è un’altra categoria di ragazze: quelle che tra le nuvole ci sono rimaste e hanno creduto che il vento prima o poi le avrebbe spinte verso la direzione giusta. Queste ragazze, queste donne, hanno lottato per un sogno che a molte altre sembrava troppo grande anche solo per essere pensato e perseguito.
A queste donne, oggi, dobbiamo tutto.
In questi giorni ho raggiunto telefonicamente Marta Carissimi.
Marta prima di essere la professionista che è oggi, è una di quelle donne che fa parte della seconda categoria, una di quelle che prima di lanciare il cuore oltre l’ostacolo ha preso il martello e abbattuto il muro, pezzo per pezzo.
Nonostante Carissimi abbia fatto – e stia continuando a fare – la sua parte in quest'opera di promozione nei confronti del calcio femminile, è stata una giocatrice che, come molte altre, non aveva la certezza di poter davvero vivere di questo sport e che quindi si è rimboccata le maniche per assicurarsi un futuro fuori dal campo.
Marta Carissimi ha esordito in Serie A nel 2003 vestendo la casacca del Torino, la squadra della sua città. Nella sua carriera ventennale ha collezionato 87 presenze tra U19, U20 e Prima Squadra in Azzurro, ha indossato le maglie di Verona, Inter, Fiorentina e Milan con una parentesi allo Stjarnan, in Islanda. Nonostante la carriera a tempo pieno come giocatrice si è laureata e ha iniziato a lavorare nell’azienda di famiglia, un percorso di vita fatto di sacrifici e sudore per conciliare presente e futuro ai massimi livelli. L’ambivalenza della vita di Marta rappresenta una realtà su cui sono state costruite le fondamenta dei progressi che sono stati raggiunti nel calcio femminile oggi. Sono storie fin troppo comuni di atlete che non hanno mai avuto la possibilità di giocare a calcio a tempo pieno ma si sono battute affinché la generazione dopo la loro potesse permetterselo.
È passato poco più di un anno da quando Marta ha annunciato il suo ritiro dal calcio giocato e da quel momento è come se avesse preso la rincorsa per essere ancora più partecipe dei cambiamenti in atto. Nella nostra chiacchierata abbiamo parlato della sua formazione, del professionismo, della leadership delle donne, dell’informazione che ruota attorno al calcio femminile e di quell’episodio in Croazia-Italia dove, a causa di un blackout nello stadio dove si occupava del commento tecnico per la Rai, ha ripreso la fine della gara tramite una diretta Instagram.
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È passato più di un anno da quando hai salutato il calcio giocato ma visti i tuoi impegni all’interno dell’ambiente è come se non te ne fossi mai andata. Immaginavi così il tuo futuro fuori dal campo?
Se penso agli ultimi anni sì, se penso a qualche anno fa no. Il mio futuro ho iniziato a prepararlo tanti anni fa quando, subito dopo le superiori, ho iniziato a studiare ingegneria gestionale e mi sono laureata sia in triennale sia in magistrale. Il mio obiettivo, da sempre, era portare avanti l’azienda di papà.
Mio papà ha un’azienda di impianti così ho sempre portato avanti in parallelo la carriera calcistica con l’attività di famiglia. Dal 2014 in poi gli ultimi sei anni della mia carriera li ho fatti così. Negli ultimi due anni al Milan mi svegliavo alle sei del mattino per andare all’allenamento. Prendevo il treno alle 6.45 e una volta arrivata a Milano qualsiasi mezzo si potesse prendere o noleggiare andava bene. Tra uno spostamento e l’altro arrivavo alle 9.30. Una volta finito l’allenamento facevo sempre mille corse per riprendere il treno e andare in azienda.
Insomma, io il mio futuro l’avevo visto così anche perché il calcio per me è sempre stato importante ma sapevo che non sarebbe potuto diventare un lavoro. Dieci anni fa le cose non erano nemmeno lontanamente quello che sono oggi.
Verso la fine della mia carriera sono passata alla Fiorentina, che in quel momento era l’unica squadra maschile ad essere entrata nel calcio femminile. Lì ho iniziato a vedere tutto in grande evoluzione, ho visto cosa poteva nascere, ho visto nuove figure all’interno dei club più strutturati e lì ho capito che avrei potuto continuare in questo ambiente. Nella mia ultima stagione di calcio giocato nel 2019/2020 ho iniziato una formazione accademica in questa direzione con un master in gestione degli impianti sportivi.
Durante il lockdown sapevo che avrei smesso di giocare nel mese di giugno e ho scelto anche di chiudere con l’attività lavorativa in azienda senza sapere di preciso cosa avrei fatto. Non era possibile continuare lì perché quando hai qualcosa di tuo sei completamente assorbito. Solo così ho potuto aprirmi al calcio femminile e avviare in completa autonomia un percorso da libera professionista come consulente di marketing per le aziende – sempre con un focus sul femminile – mentre prendevo il patentino UEFA B come allenatrice per formarmi dal punto di vista tecnico.
Nel frattempo ho iniziato come commentatrice della Nazionale per la Rai e ho partecipato ad un corso sulla leadership femminile (in inglese) organizzato dalla FIFPRO. Sono state selezionate quattordici persone da tutto il mondo ed è stato stupendo, molto interessante e formativo. Per me come avrai capito la formazione conta tantissimo per comprendere la direzione che sta prendendo il calcio, cosa sta diventando, dove stiamo andando e per aprirmi a nuove opportunità.
Da poco ho terminato il corso in Management del calcio indetto da FIGC e Bocconi, un corso davvero interessante. Poi in tutto questo è arrivata anche la collaborazione con DAZN come commentatrice della Women’s Champions League: questo è il quadro, faccio un po’ di cose.
Infatti non ti chiedo cosa tu faccia durante il tempo libero perché mi sembra evidente che non ne hai.
In realtà nel tempo libero cerco di fare tutti quegli sport che prima non potevo fare: bici, camminate, paddle. Il mio tempo nel fine settimana lo dedico alle partite di Serie A femminile. A volte guardo anche qualche partita della Women’s Super League, la Champions League ovviamente e le partite più importanti di calcio maschile. A me il calcio femminile piace proprio seguirlo, quindi compatibilmente con il tempo a disposizione lo faccio sempre molto volentieri.
Ricapitolando: laurea in ingegneria gestionale, master in gestione degli impianti sportivi, commentatrice Rai e Dazn, consulente in marketing e fresca di corso in Management del calcio. Qual è l’obiettivo?
Io mi formo per cercare di aprirmi ad altre opportunità. Mi piace molto quello che faccio, sicuramente se dovessero svilupparsi altri percorsi per stare sempre più vicina al calcio femminile in vesti diverse sarei pronta a coglierle.
Vorrei mettere a disposizione sempre di più la mia esperienza e le mie competenze, sia quelle che ho ottenuto studiando e formandomi sia quelle acquisite lavorando a trecentosessanta gradi nell’azienda di famiglia, dove mi occupavo un po’ di tutto in maniera trasversale. Ho fatto un percorso sia calcistico sia professionale quindi le mie competenze non sono quelle di una pura accademica. L’obiettivo è questo, non saprei dirti con precisione in che vesti e in che ruolo.
Ho notato che nel corso FIGC in Management del calcio eravate solo due donne in un gruppo di trentacinque partecipanti. Secondo il tuo punto di vista com’è possibile colmare il vuoto di leadership femminile in un ambiente tipicamente maschile come quello del calcio?
Secondo me ci devono essere due componenti: la formazione e l’opportunità. Per ambire a posizioni dirigenziali è fondamentale essere preparati e ben formati, poi però bisogna anche avere l’occasione di dimostrare le proprie competenze. Se questi due fattori non si intersecano ci possono essere tante donne preparate senza opportunità oppure donne a cui viene data questa opportunità ma non sono in grado di ricoprire una certa posizione.
Però pur essendoci queste opportunità nel tuo corso eravate solamente due donne, forse la mancanza di modelli femminili ai vertici gioca un ruolo in questo meccanismo.
È vero, però questo non era un corso ad accesso per punteggio come molti corsi della FIGC che guardano alla carriera calcistica. Era un corso più selettivo basato sulle esperienze di curriculum, e non tutti venivano dal mondo del calcio.
È vero anche che, in generale, per qualsiasi ambito, avere dei modelli aiuta a sapere di “poter diventare”, ma per fare in modo che questo avvenga bisogna lavorare molto; competenze e opportunità sono la chiave. Credo molto nel mix delle due cose e credo fortemente che avere donne nel mondo del calcio, come in qualsiasi altro ambito lavorativo, possa aiutare. Penso che il confronto fra generi, fra punti di vista diversi così come culture diverse, non possa che portare all’arricchimento. Vedere la stessa cosa da punti di vista differenti porta sempre ad una crescita.
Dalla prossima stagione approderemo finalmente al professionismo ma i dubbi che ruotano attorno al nuovo modello con una serie A sempre più elitaria a dieci squadre e la sopravvivenza delle piccole società vivacizzano il dibattito. Quali saranno le principali difficoltà che il professionismo dovrà attraversare?
Come avviene in tutti i percorsi di crescita, si cambia e si possono incontrare difficoltà lungo la strada. La cosa importante è che tutte le componenti – e parlo di Federazione, società, allenatori e calciatrici – siano uniti nello stesso obiettivo e nella stessa direzione per affrontare gli ostacoli che verranno. Solo così gli ostacoli potranno essere superati.
Come dice “We ALL rise with more eyes”, il titolo dello spot di Dazn, c’è bisogno che si arrivi ad un meccanismo sempre più qualitativo nel calcio femminile affinché si possa attivare un circuito più vasto di sponsor e visibilità. Che ruolo occupano i media in questo gioco?
I media occupano un ruolo fondamentale. Noi addetti ai lavori conosciamo bene il calcio femminile, le opportunità che questo può offrire e quanto sia appetibile il prodotto. Se ce lo teniamo solo per noi e nessuno ci aiuta a divulgarlo rimane una cosa solo di nicchia e in questo senso i media svolgono un ruolo cruciale.
Il Mondiale di calcio femminile del 2019 ne è stato un esempio: è arrivato a tutti, anche a chi non lo aveva seguito fino a quel momento. Anche grazie a partite iconiche come Italia-Brasile il pubblico si è appassionato al calcio femminile, un match che è stato visto da sette milioni di persone.
Ora ci sono altri canali come DAZN che, pur essendo una Pay Tv, ha fatto una partnership con Youtube per trasmettere gratuitamente la Champions femminile. Oppure La7 che dà in chiaro una partita di serie A femminile ogni weekend. Ne cito solamente alcuni, però è evidente come i media siano determinanti affinché il calcio femminile possa arrivare a divulgare quelli che sono i valori e i messaggi che incarna.
Come valuti l’informazione che si fa in Italia rispetto al calcio femminile?
Secondo me sta gradualmente crescendo. Il fatto di essere andati su La7 quest’anno è un ottimo segnale perché eleva il prodotto dalla nicchia, in più i club professionistici stanno facendo un ottimo lavoro a livello di comunicazione: al pari dei giornali possono essere validi promotori di informazione. Anche nei maggiori giornali sportivi si sta smuovendo qualcosa, e il livello crescerà di pari passo con la crescita del movimento. Ci sono delle logiche che hanno bisogno di tempo, a volte vorremmo tutto subito però ogni cosa richiede il rispetto delle tempistiche.
Penso anche al fatto che sono passati già sei anni da quando la Federazione ha imposto alle società maschili l’obbligo di avere giocatrici tesserate Under12 e di acquisire il titolo sportivo. Abbiamo fatto degli enormi passi in avanti e siamo sulla strada giusta: adesso arriverà il professionismo ed è una cosa che avremmo voluto tanto, ne parlavamo da forse vent’anni ma i tempi non erano maturi. Ora che lo sono è importante che tutte le componenti funzionino in sinergia e i media in Italia hanno un grande compito in questo.
Al di là del lavoro di alcune testate e qualche rispettabilissima pagina gestita da appassionati/e, è difficile reperire informazioni sul calcio femminile e le sue interpreti a trecentosessanta gradi, a meno che queste giocatrici non abbiano la fama di Cristiana Girelli o Barbara Bonansea. All’estero c’è un’attenzione mediatica molto diversa.
Concordo, però all’estero i processi di cui abbiamo parlato sono partiti almeno un decennio prima. Al contrario in Italia dobbiamo continuare a sensibilizzare il pubblico perciò è fisiologico che al momento ci siano certi nomi che spiccano più di altri: prima ci sono i frontmen e poi pian piano arriva il resto.
Il vantaggio attuale è che i club di calcio maschile hanno molto seguito e utilizzano i loro canali anche per parlare delle loro atlete; in questo modo raggiungono una fetta di pubblico molto più ampia rispetto alle testate dedicate che, al momento, sono seguite da una nicchia.
Dopo quel match fra Croazia-Italia abbiamo capito che andare allo stadio con il telefono carico è fondamentale (partita in cui le trasmissioni Rai sono state interrotte improvvisamente a causa di un black-out allo stadio, ndr).
Il calcio è uno spettacolo e gli spettacoli vanno condivisi. Poi il telefono è un supporto nel momento in cui magari devi controllare una formazione oppure devi consultare un dettaglio statistico che non ricordi. Quindi sì, è molto utile avere il telefono carico.
È utile soprattutto se salta la corrente allo stadio e si corre ai ripari con una diretta Instagram.
Non avevo collegato che me lo stessi dicendo per quel motivo però effettivamente si è rivelato molto utile. Iniziare la diretta sul mio profilo Instagram è stata una cosa naturale nel momento in cui avevamo capito che non potevamo riprendere la trasmissione.
Nonostante la tua diretta abbia suscitato ilarità, molti e molte non hanno preso bene la mancata ripresa del servizio Rai.
In quella circostanza la Rai non poteva far nulla. Di lì a poco hanno staccato tutti gli alimentatori tv e sono venuti a informarci che se il generatore avesse ricominciato a funzionare avrebbe potuto supportare solo le luci del campo. È stato un problema non solo per noi ma anche per tutte le altre tv locali presenti. La Rai è assolta in questa circostanza.
Qui si potrebbe aprire il solito discorso sulla qualità degli impianti che vengono utilizzati e messi a disposizione del calcio femminile, è la UEFA in questo caso che sceglie dove giocare in partite come questa.
Anche per noi è stato un momento di disagio, ci siamo trovati con gli schermi anneriti da un momento all’altro. Per fortuna avevo il telefono carico e ho cercato di far vedere gli ultimi minuti della partita dal mio profilo.
Per concludere ti farei una domanda in pieno stile colloquio di lavoro: dove vedi Marta e il calcio femminile tra cinque anni?
Il calcio femminile lo vedo in alto, lo vedo cresciuto. Non so in che misura ma secondo me tra cinque anni a livello mondiale avrà raggiunto standard sempre più alti. Mi auguro che anche in Italia sarà così. Spero di vedere il nostro calcio sempre più competitivo a livello internazionale.
Per quanto riguarda me invece, non so di preciso dove mi vedo e a fare cosa, l’unica cosa che auguro a me stessa è di essere felice qualsiasi sarà la mia strada.
Valentina Forlin ha 23 anni, studia Scienze Politiche e Relazioni Internazionali a Padova e scrive prevalentemente di calcio femminile per Riserva di Lusso e Di Rigore. Nel tempo libero rispolvera le sue Tiempo con scarso successo capendo di dover appendere definitivamente le scarpe al chiodo e dedicarsi alla tastiera.
Due o tre cose che abbiamo fatto in giro in queste ultime settimane
La newsletter fighissima sui podcast da auscultare che tiene il nome di “Orecchiabile” (vabbe’, dai, la conoscete tutt*, e se non la conoscete: iscrivetevi!) ha chiesto al team Zarina (Giorgia, Tiziana, Olga ed Elena) di scegliere quattro podcast sullo sport femminile altrimenti detti “quattro podcast in tuta da ginnastica”. Dopo un carteggio delirante nella nostra chat su Whatsapp ci siamo rese conto che in italiano non ce n’erano e così abbiamo optato per una scelta anglofila. Enjoy!
Olga Campofreda ha invitato Zarina sul canale di Solo se ti rende felice per parlare di sport, femminismo ed identità. Potete riascoltare/vedere tutto qui.
“Allenatrici brillanti” è un titolo molto bello per una puntata che tratta di Patrizia Paníco e Emma Hayes, rispettivamente le coach della Fiorentina e del Chelsea. Gabriele Colombo mi ha ospitata (me, Giorgia) per la seconda volta su Sheva, il suo podcast che parla di sport da un punto di vista mentale.
Due o tre cose che abbiamo letto in giro in queste ultime settimane
A. Elena Marinelli su l’Ultimo Uomo ci aiuta a fare il punto sulla questione Peng Shuai
B. Ancora su l’Ultimo Uomo Tiziana Scalabrin ha intervistato Radka Leitmeritz, una fotografa che sta cambiando i canoni estetici del tennis e non solo (sul suo profilo Insta ci sono anche i capelli di Megan Rapinoe che sembrano la cresta di un uccello esotico).
C. Valentina Forlin su Riserva di lusso ci spiega come funziona la compravendita del titolo sportivo nel calcio femminile – ossia come sono nate alcune squadre di Serie A affiliate ai grandi club del calcio maschile.
D. Questo pezzo di Racquet sul rapporto abusivo di Alexander Zverev nei confronti di Olga Sharypova, ex tennista e quindi Zarina, è un po’ datato ma mi sembra ancora la cosa migliore (soprattutto perché c’è lei, la sua voce) scritta su una questione di per sé non trascurabile che però viene sempre trascurata, soprattutto quando Zverev vince i tornei. Siccome noi qui a Zarina ci stiamo anche per tirare la giacchetta, ve lo riproponiamo. Io non so voi, ma non riesco a separare il tennista dall’uomo che schiaccia ripetutamente un cuscino sul viso della sua compagna per non farla respirare più.
Una foto (che è un video) che ci è piaciuta questo mese
Il gruppo, le urla, l’adrenalina e la storia che si compie in terra straniera.
La Juventus batte 0-2 le Lupe del Wolfsburg a casa loro e raggiunge la seconda posizione del Gruppo A della Champions League dietro al Chelsea composto dal pantheon delle divinità del calcio femminile.
Le fasi finali sono sempre più vicine e si inizia a fremere e tremare.
E qui è dove contravveniamo alle regole di Zarina in favore di chi le regole le ha accartocciate tutte
Ti ricordo che la shopper di Zarina è tornata e la puoi avere (e con essa diffondere l’hype in giro per l’Europa) pigiando questo bottone rosa
Infine se c’è qualcosa che ci vuoi dire basta che rispondi a questa mail. Puoi mandarci il tuo feedback sul nuovo album di Marracash, una foto di te con la maglia della tua Nazionale preferita oppure il feedback sulla tua fortuna al poll della FIBA per i biglietti dell’Europeo femminile dell’anno prossimo (noi ne abbiamo avuta poca, solo Italia-Belgio).
Ci sentiamo a fine dicembre. Per tutto il resto c’è il nostro canale Instagram
Infine ricorda: #siamotutt*Zarina
Nni viremu (si un ni viremu, addumamu a luci)*