La Zarina di Marzo
#3//2022 Questo numero parla di Camp Nou, Allianz Stadium, Ines Boubakri e il mio libro in uscita.
Ciao, io sono Giorgia e ti mando Zarina una volta al mese. In genere l’ultimo sabato del mese escluso quando ho problemi di connessione come in questo periodo e allora cerco di fare del mio meglio. Per esempio adesso sto squattando l’internet dal cellulare di mio padre.
E così questa è la settimana in cui un nuovo record nel calcio femminile è stato raggiunto: ai quarti di finale di Champions League il Barça ha letteralmente asfaltato il Real Madrid per 5-2 in un Clásico che andrà agli annali per aver ospitato sugli spalti del Camp Nou 91.553 spettatrici e spettatori. Mai nessuna squadra femminile aveva avuto un pubblico così numeroso.
Nel momento in cui sto scrivendo io la partita è terminata da circa mezz’ora e il mio feed di Instagram è intasato da post e storie in cui si avvicendano caption come “record smashed”, e “history made”. È vero: stanotte è stata fatta storia ancora una volta e il risultato di questa partita storica è la sommatoria di una lunga tradizione sportiva in Spagna, del fatto che la partita è stata anche un Clásico, che a scendere in campo sono state alcune delle giocatrici più forti del mondo fra cui la vincitrice del Pallone d’oro 2021. Già dai sorteggi di dicembre si sapeva che questa partita sarebbe stata il must dei quarti di finale e alla fine il risultato (91.553 persone, lo ripeto) è andato ben oltre le aspettative più rosee. Dal 2021 il Barça è la squadra da battere e chiunque si interponga fra le undici blaugrana e la coppa di maggio non è considerata altro che la squadra malcapitata, il contro-altare per il gioco spagnolo fatto di cross precisi al millimetro e una lista di nomi di calciatrici che hanno quasi interamente occupato le prime dieci posizioni della classifica del The Guardian delle 100 migliori giocatrici del 2021.
Flash-back all’Allianz Stadium mercoledì 23 marzo. La Juventus Women fa storia anche lei raggiungendo per la prima volta nella sua (recente) storia calcistica i quarti di finale di Champions. L’avversaria è l’Olympique Lyonnais Féminin - una squadra che ha in curriculum 7 Champions League di cui la più recente risale al 2020.
Già nello scorso autunno avevo fatto il fioretto per cui se la Juve fosse arrivata ai quarti sarei andata a vedere la partita a Torino, costasse quel che costasse. Io ho molti difetti ma sono una donna di parola e così a inizio marzo metto in atto un lento ma progressivo pellegrinaggio di avvicinamento all’Allianz: parto da Fuerteventura il 7 marzo, resto a Sarzana una decina di giorni, vado a Milano sabato 19 marzo per poi entrare all’Allianz di Torino il 23 marzo intorno alle 18.50 quando la partita è da poco iniziata e il pubblico ci accoglie con un boato inquietante che poco dopo scopriremo essere un goal che Hurtig si è mangiata sotto porta.
La prima cosa che faccio nel mio ritorno allo stadio dopo 22 anni è fare un video e mandarlo a qualcuno che non è con me, poi prendo posto e mi guardo in giro. Gli spalti sono letteralmente vuoti e il pubblico è molto calmo e mi ricorda immediatamente lo sconforto che ho provato la stagione in cui ho giocato a basket nella squadra femminile dell’Alba Berlin. I nostri tifosi tedeschi reagivano ad ogni azione, contropiede, fallo o schiaffo a mano aperta sulla guancia dell’avversaria applaudendo con timidezza come quando finisce un atto dell’opera. Allo stesso modo quel che vedo all’Allianz non corrisponde a come mi ero immaginata questa serata. Non ci sono cori, non ci sono fumogeni e nell’unica occasione in cui parte la ola molt* non provano nemmeno l’impeto di alzarsi. Io i quarti di Champions me li ero immaginati diversi, una bolgia, un delirio, fischi e insulti di venticinquemila persone all’arbitra tedesca che per inciso per tutto il primo tempo non ha fischiato un fallo in favore della Juve manco per sbaglio. La situazione che vedo per un istante mi fa pensare di essere una fanatica, mi fa accarezzare l’idea che nessuno a parte me avrebbe lasciato le Canarie per una partita di andata dei quarti di Champions femminile.
Eppure poi è stato bellissimo, eppure poi quella partita la Juve l’ha sofferta e vinta 2-1 e io con lei anche se, nonostante gli entusiasmi per il prender parte ad un momento storico, la proto-milanista che mio nonno mi ha educata ad essere non è mai riuscita ad urlare “Forza Juve” senza che le parole mi si strozzassero in gola.
Stasera mentre Baruch (il mio cane) stava ai miei piedi e guardavamo la partita insieme in un sentimento che era più una commistione di domestico e sportivo insieme, sono andata a cercare i dati di quella partita. Juventus-Lione ha ospitato sugli spalti poco più di 9000 spettatori, di cui (secondo i miei calcoli) solo 3800 paganti. Considerato che le donne e i bambini entravano all’Allianz gratis, l’incasso finale della partita si è aggirato intorno ai 19000 Euro. Mi sono chiesta: da un mero punto di vista economico è valsa la pena aprire l’Allianz nonostante la storia, nonostante il prestigio, nonostante tutto? Vorrei sbagliarmi ma temo che la risposta sia negativa.
Quindi mi sono messa a fare due calcoli, mi sono interrogata, ho persino fumato una sigaretta fissando il vuoto, al buio, con una presa a male così tangibile che pure mia madre, dalla cucina, mi ha chiesto se andava tutto bene. Avrei preferito dirle che era finita la storia d’amore della mia vita piuttosto che confessarle che stavo in lutto per il numero degli spettatori della Juve rispetto a quelli del Barça e così ho risposto: «Sì ma’, tutt’apposto» e poi sono sgattaiolata qui a scrivere.
I dati di questa sera saranno materia di riflessione per un po’, magari ne parlerò con qualcun altro che scrive di calcio o il calcio lo guarda perché questo dato prima di tutto mi suggerisce che c’è una sorta di pregiudizio sul calcio femminile in Italia di cui io non conosco i contorni netti. Torino è una città con una tradizione calcistica assurda, con due squadre in serie A maschile e una femminile e mi sono chiesta: ma dove stavano tutti gli juventini che vanno a vedere la maschile? Non avevano voglia di spendere 5 euro per un quarto di finale di Champions? E se proprio no, perché no? Un sacco di dubbi, un sacco di domande. Spero di prendere sonno stanotte.
Fine dell’intro lunga. Passiamo alla newsletter vera.
Seconda intro, quella alla Zarina di Marzo.
Ad aprile esce il mio primo libro e tratta di sport femminile. Sono successe molte cose, alcune persino rocambolesche, affinché il mio esordio fosse un libro che tratta di sport. Ma mentre pensavo e mettevo in moto Zarina, nella mia vita personale sono accadute altre cose che hanno portato alla nascita di “Velata. Hijab, sport e autodeterminazione”, un testo che uscirà per Capovolte Edizioni nella collana dedicata allo sport che si chiama Dinamica.
E questa è – in anteprima ASSOLUTA – la copertina disegnata da Lorena Spurio:
Velata parla di sport e religione, e nel caso specifico di religione musulmana. Ora, se in questi mesi hai seguito Zarina con attenzione, avrai notato che il legame fra religione e sport è uno degli argomenti più amati da me. Non perché io sia particolarmente religiosa, ma piuttosto perché trovo interessanti i risvolti della fede in ambito sportivo. Mi interessano i riti prima della gara, le preghiere, la forza invocata prima di una finale olimpica che arriva sotto forma di prestazione ineccepibile, che si trasforma in una medaglia o in un risultato sorprendente. Perché però la religione musulmana? Perché lo sport si basa sulla prestazione del corpo e nella religione musulmana il corpo ha un’importanza primaria. Le atlete osservanti per esempio non possono competere con le gambe e le braccia scoperte, e devono indossare l’hijab, il copricapo che nasconde i capelli, i lati del viso e il collo. Allo stesso tempo però molte federazioni sportive internazionali vietano per regolamento alle atlete di indossare l’hijab. Cosa accade allora nel punto in cui un credo religioso e la carriera sportiva collidono?
Velata racconta quattro storie diverse di quattro atlete musulmane. Ognuna di loro ha scelto di rispondere a questa domanda in una maniera differente ma non contraddittoria rispetto all’altra. Velata è anche un testo che parla di molte altre cose e passando per le pubblicità della Nike, le serie fotografiche dell’agenzia Magnum, documentari, fashion, poesia, musica, testi femministi arriva a trattare molti dei temi che caratterizzano lo sport femminile di oggi: visibilità, rappresentanza, legacy – tutti temi che negli ultimi due anni hanno caratterizzato Zarina sin dal giorno uno.
Senza Zarina infatti questo libro non avrebbe avuto la forma che ha, e ad esso non sarebbero sottesi i dialoghi che ho tenuto nel corso di questi mesi con le persone che hanno lavorato con me. È proprio uno di questi dialoghi che oggi rappresenta la Zarina del mese di marzo e si tratta di un’intervista di Olga Campofreda a Ines Boubakri, la prima schermitrice tunisina (e quindi africana) a vincere una medaglia alle Olimpiadi. Boubakri è una delle protagoniste di uno spot della Nike che è stato prodotto in occasione del lancio sul mercato dell’hijab Nike Pro di cui si parla in maniera approfondita anche in Velata. Olga è andata a cercare Boubakri e ha parlato con lei di cosa significa per una atleta olimpionica provenire da un contesto culturale in cui la religione ha un ruolo primario. Passando da ciò che hanno pensato gli altri di una ragazza che ha scelto per sé uno sport in cui si imbraccia un’arma, fino ad arrivare a raccontare quali sono le difficoltà reali per una atleta musulmana osservante – come racconta Boubakri stessa, persino rispettare il Ramadan può essere complicato se non c’è un allenatore disposto ad allenarti di notte, che è l’unico momento in cui, se sudi dentro la tuta, puoi bere un goccio d’acqua senza contravvenire ai dettami del Corano.
Buon divertimento.
La Zarina di Marzo è Ines Boubakri
La prima schermitrice africana nella storia: Inès Boubakri e il fioretto che le ha cambiato la vita
di Olga Campofreda
Lo scorso ottobre la fiorettista tunisina Inès Boubakri ha postato un video in cui si mostra in piena riabilitazione dopo l’intervento al ginocchio sinistro a cui si è sottoposta dopo i giochi olimpici di Tokyo. La canzone Stronger di Christina Aguilera fa da colonna sonora alle immagini della schermitrice che muove passi avanti e indietro, flette la gamba con delicatezza, esercitando cautela come se avesse a che fare con un corpo del tutto nuovo.
Il problema al ginocchio si è presentato nei mesi della pandemia e ha compromesso la sua performance nella scorsa Olimpiade, sia dal punto di vista fisico che mentale: Inès è mancina, la gamba sinistra è quella da cui lascia partire ogni azione di attacco, ed è anche quella che subisce con maggiore forza l’impatto nell’affondo. Aguilera canta 'Cause it makes me that much stronger/Makes me work a little bit harder e sono versi rubati a una storia di amore e tradimento, ma non è forse lo stesso sentimento che lega un’atleta al proprio corpo, quando cede? Per una ragazza musulmana innamorata di uno sport da combattimento il corpo è un alleato fondamentale grazie al quale è possibile affermare la propria emancipazione a dispetto di coloro che le avevano detto di stare al suo posto.
La rivoluzione geopolitica che attraversa il mondo della scherma ormai da quindici anni sta portando sulla scena paesi che non appartengono tradizionalmente a questa disciplina, ma che ambiscono a ritagliarsi la propria fetta di gloria. La storia di Inès Boubakri appartiene alla categoria emergente di donne che nella scherma hanno trovato il maggiore alleato per essere ascoltate. Sono atlete la cui esperienza individuale, nata come un’eccezione, aiuterà alla costituzione di una squadra negli anni a venire. Come molte altre stelle nascenti delle periferie geografiche della scherma, Boubakri è un’atleta della fondazione: la sua storia anticipa e accelera i processi di un mondo che sta cambiando. La raggiungo virtualmente nel suo appartamento di Parigi, dove al momento sta affrontando la riabilitazione.
La luna e la stella
Olimpiadi di Rio 2016. Sulla pedana dove si gioca tutto per il bronzo, le bandiere sono quelle della Russia e della Tunisia. La specialità è il fioretto femminile e le schermitrici sono Aida Shanaeva e Inès Boubakri.
La nazionalità delle singole atlete ha una parte importante nel gioco di ruolo che è l’inizio di ogni incontro di scherma, così anche in questo. I colori che rappresenta Shanaeva – il blu e il rosso – intimidiscono le avversarie, regalano all’atleta un vantaggio emotivo che nel silenzio iniziale dello 0 a 0 significa tutto. La Russia è una delle potenze incontrastate della scherma e questa volta, a Rio, fa ancora più paura, perché a stare nel box c’è il coach Stefano Cerioni, l’uomo che ha fatto volare altissimo il fioretto italiano a Londra solo quattro anni prima.
Dalla parte opposta, il colore di Boubakri è il rosso. Lo tiene dipinto sulla maschera insieme a una luna e una stella ed è un’immagine che non fa paura alla sua avversaria. La verità è che Boubakri porta quei colori per se stessa: non ha niente da perdere, ma se dovesse vincere quella medaglia, sarebbe la prima schermitrice africana a salire sul podio dei giochi olimpici. La prima schermitrice africana nella storia.
Ottenere il vantaggio di questo incontro è stato molto difficile. Sul 10-10 la voce fuori campo del commentatore dice una cosa fondamentale: «da adesso in poi fino alla quindicesima stoccata non sarà una questione di tecnica, ma di coraggio». Inès non può averlo sentito, ma lo sa bene. “Non c’è problema”, deve essersi detta la ragazza di Tunisi.
Nel nome della madre
“Nei paesi di cultura islamica le donne mettono da parte molte delle loro passioni per dedicarsi alla famiglia, e questo generalmente con grande anticipo rispetto alla media dei paesi occidentali” racconta Inès Boubakri. “Sono diventata la prima schermitrice africana a salire su un podio olimpico perché mia madre non ha mai rinunciato ad allenarsi. Non si è fermata neanche quando era incinta. Io le stavo nella pancia e lei continuava a lavorare”. Accompagnare sua madre agli allenamenti, guardarla dal passeggino, giocare con le lame di riserva mentre lei prendeva lezioni dal suo maestro: tutto questo ritorna nel modo in cui Inès cammina sulla pedana e in quella gamba posteriore che resta un po’ piegata anche nell’affondo, perché possa rimettersi in posizione di guardia più rapidamente. In entrambe le donne c’è la stessa genetica che torna nei movimenti e l’attitudine a procedere verso un sogno, l’Olimpiade, nonostante le persone che dicano che così non sta bene, che non si fa. Una ragazza non dovrebbe sottoporre il corpo a tale stress, si dovrebbe concentrare – piuttosto – sul costruire una famiglia, fintanto che ne avrà le forze.
Nel nome della madre Inès Boubakri ha fondato la sua intera carriera sul coraggio, che in primo luogo l’ha aiutata a ignorare quello che la comunità tunisina avrebbe pensato di lei. “Non è facile conciliare le tradizioni e le usanze di una religione come l’Islam quando sei un’atleta di alto livello. Ho provato a osservare il digiuno imposto dal Ramadan quando ero più giovane, ci ho provato. Ma quando l’allenamento viene orientato su obiettivi più alti, obiettivi internazionali come quello di una coppa del mondo, per esempio, allora bisogna prendere una decisione. La mia scelta è stata piuttosto pratica: nessun maestro era disposto ad allenarmi di notte, dandomi la possibilità di mangiare e bere quando era consentito e poi mettermi in pedana. Allora ho dovuto adattarmi, mettere a tacere i sensi di colpa, silenziare le voci di coloro che mi avrebbero criticato. Ho messo la performance al primo posto e ho pensato che Dio mi avrebbe perdonato per questo. Poi è arrivata la medaglia di Rio: era molto più pesante di quanto avessi immaginato. Sono riuscita a non piangere quando ho vinto il match contro la mia avversaria, ma non ho potuto fermare le lacrime quando mi hanno messo il bronzo al collo.”
“Che cosa diranno di te?”
Inès Boubakri ha rappresentato la Tunisia per la prima volta a Pechino, nel 2008. In quell’occasione era uscita alla prima eliminazione senza portare a casa nulla se non l’esperienza di vedersi con i colori che un tempo aveva portato sua madre. Nel 2012, a Londra, la corsa verso il podio era stata fermata da Valentina Vezzali per una sola stoccata di differenza.
Quando dopo il bronzo storico di Rio la fiorettista è stata intervistata dai media, ha riconosciuto l’enorme responsabilità che le veniva consegnata insieme a quel premio: mostrare a tutte le ragazze africane che arrivare così in alto era possibile, ma non solo. “Non si tratta esclusivamente di ambire all’eccellenza sportiva. Alle future donne islamiche voglio far capire quanto portare avanti le proprie passioni sia possibile anche da adulte”. Il messaggio di Boubakri non gioca solo sulla retorica del crederci abbastanza, perché arriva da un’atleta che non ha mai smesso di parlare dei compromessi a cui ha dovuto sottoporsi per conciliare la sua carriera sportiva e il contesto culturale da cui proveniva.
Nel 2017, forse proprio in seguito a queste dichiarazioni, è arrivata la proposta della Nike Women per uno spot pensato per il mercato del Medio Oriente. La prima scena si apre su un’atleta con la testa coperta dall’hijiab che inizia a correre per le strade sotto gli occhi giudicanti dei passanti. “Che cosa diranno di te?” recita la voce narrante. Il giudizio degli altri è un aspetto centrale della vita delle donne islamiche. “Il messaggio della Nike, a pensarci bene, non era neanche tanto per le bambine o per le ragazze, quanto per le loro famiglie. Sono i genitori che inizialmente devono fare il lavoro di supporto, educare le loro figlie a credere in se stesse, aiutarle ad avvicinarsi a uno sport e incoraggiarle a metterci impegno. In Tunisia, per esempio, anche se siamo un paese dalla mentalità piuttosto aperta, ci sono ancora persone che pensano che lo stile di vita delle donne possa influire sul buon nome della famiglia. Se una ragazza si appassiona a un’attività troppo aggressiva o poco femminile, la prima cosa che la gente farà sarà quella di pensare male dei genitori. Eppure lo sport andrebbe visto come un’opportunità, non come un ostacolo.”
Ripartire da Inès
Appena finita la scuola superiore, da ragazzina, Inès si era trasferita in Europa per continuare a studiare. Aveva scelto Parigi, dove si era iscritta in una sala d’armi per continuare ad allenarsi e riuscire a muoversi con più facilità per le coppe del mondo. “Quando ero in Tunisia dovevo chiedere il visto ogni volta per partecipare alle gare, e spesso i documenti non erano pronti in tempo”.
Nella palestra francese inizialmente era stata accolta come una principiante, “quando poi mi hanno vista combattere”, ricorda, “mi hanno invitata ad allenarmi con gli atleti di alto livello. Nessuno era pronto a dare fiducia a una fiorettista africana.”
I primi anni, nel circuito internazionale, quando dopo i gironi iniziali si buttava nella mischia per cercare di vedere affissi al muro gli abbinamenti per le eliminazioni dirette, notava sul volto delle altre ragazze un certo sollievo nel leggere la sua provenienza: Tunisia non significava ancora niente nel loro immaginario schermistico. Grazie agli obiettivi raggiunti nella sua carriera - due volte bronzo ai mondiali, bronzo olimpico e argento ai giochi del Mediterraneo - Inès Boubakri ha portato in alto i colori della sua nazione scrivendo pagine importanti della storia sportiva del Paese.
Nonostante le grandi aspettative, l’olimpiade di Tokyo è stata una tappa da dimenticare, con le tribune vuote e quel silenzio perforante che evocava tutte le insicurezze come fantasmi. Per un’atleta come lei, che non combatte mai solo per se stessa ma trova molta forza nel supporto di chi la segue, questo ha significato una disastrosa sconfitta 15-3 ai sedicesimi di finale contro la russa Larisa Korobeynikova.
Boubakri è arrivata a Tokyo rimandando l’operazione al ginocchio per cui l’abbiamo vista riabilitarsi in ottobre. “Non so se parteciperò alle olimpiadi di Parigi, non so se riuscirò a recuperare in tempo dopo questa operazione. Per ora sto prendendo del tempo per me. In futuro quello che so è che voglio continuare a lavorare per sviluppare la scherma femminile nei paesi di cultura islamica come allenatrice”. Inès ha un sogno: un centro specializzato per ragazze che provengono da paesi che non abbiano una federazione, o le cui federazioni schermistiche sono troppo piccole per dare un effettivo supporto alle atlete.
La scherma nel continente africano si sta lentamente sviluppando come strumento di emancipazione sociale per le donne. Il caso della spadista afro-tedesca Alexandra Ndolo, promotrice di questo sport in Kenya, è un altro esempio di un fenomeno che sta prendendo piede gradualmente negli ultimi anni. Schermitrici come Ndolo e Boubakri hanno capito la necessità di separare la categoria dell’eccellenza da quella dell’eccezione. Le loro medaglie costituiscono un precedente tramite cui indicare nuovi possibili futuri.
Olga Campofreda è ricercatrice di letteratura e cultura italiana. Vive a Londra e quando non è in British Library lavora come maestra di scherma. Il suo ultimo libro è “Dalla generazione all’individuo: giovinezza, identità, impegno nell’opera di Pier Vittorio Tondelli” (Mimesis 2020).
Goleadora è in finale nella categoria “miglior podcast sportivo” da Ilpod. Tu ci puoi aiutare a vincere votandoci
Due o tre cose che abbiamo letto ed ascoltato in giro in queste ultime settimane
Lo scorso ottobre Ada Hegerberg è tornata in campo dopo due anni di pausa per infortunio e da qualche giorno ha comunicato di esser tornata fra i ranghi della sua Nazionale norvegese dopo cinque anni di assenza in segno di protesta. Dove potrà arrivare? Certamente molto in alto.
Natalie Portman sa che se gli altri non ti danno la squadra di calcio che desideri, allora è arrivato il momento di fartene una come piace a te.
La mia amica Silvia Pelizzari ha scritto un podcast sulla letteratura queer. Si chiama Tiresia. Ve l’avevamo dichiarata che prima o dopo avremmo ospitato anche le Zarine letterarie.
Un documentario che ci è piaciuto questo mese
E cioè il documentario sul basket che ha vinto il premio Oscar e racconta la storia della prima ed unica donna ad essere stata draftata in NBA: Lusia Harris.
Il numero di aprile sarà dedicato a Velata, ci sarà un estratto e vi dirò dei primi incontri previsti per parlare del libro. Sono molto contenta di poterlo portare un po’ in giro e di poterne parlare con voi di persona. Se vi va di sapere di più di questo testo, se volete avere la scheda per sapere di cosa tratta, se vi va di ospitarmi da qualche parte per parlare di sport femminile, hijab e auto-determinazione, o anche semplicemente se vi va di scrivere due righe su Zarina, mandatemi una mail a giorgia@zarinanewsletter.it oppure rispondete a questa mail.
INTANTO UN INCONTRO con Zarina
Per chi sta a Milano ci vediamo il 19 aprile da BASE, in via Bergognone 34 alle 18:30. I Ragazzi e le ragazze di Segnali dal Futuro mi hanno invitata a “Cosa c’è nel tuo radar?”, un incontro, un talk, un meet e un drink in cui vi diamo segnali dal futuro.
Per partecipare BISOGNA ISCRIVERSI QUI
Zarina parla di sport femminile e io dal futuro vi dico che la prossima volta all’Allianz saremo almeno 30mila <3.
Besos e ricorda: #siamotutt*Zarina
E prima di andare via, se non lo hai già fatto prima, RICORDATI ANCHE DI VOTARE GOLEADORA QUI