Benvenut* a Zarina, la newsletter sullo sport femminile.
Lasciateci parlare per un attimo della frustrazione che abbiamo provato più volte durante la preparazione di questo numero. Zarina è nata proprio dal bisogno di andare a coprire un buco informativo che interessa qualsiasi sport praticato dalle donne.
Certo, da qualche anno a questa parte le cose sono sensibilmente migliorate, ma le sportive di cui parlano i media sono sempre le più talentuose, oppure le più belle. Una fetta troppo piccola rispetto a quella di giornali o magazine sul calcio che fanno servizi persino sul terzo portiere di riserva di una squadra di serie A maschile che ha sfiorato il campo per trenta secondi.
E non si tratta di una sensazione o una paranoia - vi invito ad aprire qualsiasi pagina di giornale di sport o a scrollare un qualsiasi profilo social della stessa categoria: le donne sono in numero troppo esiguo e il più delle volte sono state graziate con poche righe - e spesso sciatte - solo dopo aver portato a casa una medaglia pesante.
Noi ci vediamo un trattamento iniquo. Ma sia ben chiaro, non ci stiamo lamentando. Vogliamo invitarvi a leggere di più sulle sportive e, se necessario, a chiedere e pretendere articoli più dettagliati, più articolati del solito «ma che bella ma che brava». Nessuno ci darà un'informazione migliore se non saremo noi a pretenderla.
Il nostro contributo riparte da qui. Dalla promessa che non scriveremo con sciatteria delle nostre Zarine.
La seconda puntata di questa newsletter arriva dopo quasi sette mesi dalla prima. Quando abbiamo detto che saremmo state irregolari non intendevamo fino a questo punto, ma adesso siamo qui back for good.
Ci siamo riprese da qualche infortunio fisico e dell'anima.
D'ora in poi Zarina arriverà puntuale una volta al mese e vi racconterà nuove storie di ragazze scalmanate che indossano una tuta da ginnastica, oltre a raccogliere articoli, immagini, intuizioni che hanno a che fare con lo sport femminile.
Durante questo periodo meditativo abbiamo deciso di inaugurare un canale Instagram che si chiama Zarina_Newsletter - magari avete voglia di iniziare a seguirci anche lì e di condividerci. Ci saranno le foto delle nostre Zarine e di tanto in tanto qualche messaggio estemporaneo che ci andrà di condividere senza dover aspettare l'ultima settimana del mese che verrà.
Vi abbracciamo e vi ringraziamo per il tempo che ci dedicate
La nostra Zarina disegnata è di Flavia Trifiletti
Se avete domande o richieste o idee scriveteci a zarinanewsletter@gmail.com
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LA ZARINA DI MAGGIO
Nausicaa Dell’Orto – Football americano
Nausicaa dell’Orto è una delle poche eccezioni al veto giornalistico che vige in Italia sullo sport femminile. Giocatrice della nazionale di football americano, la sua persona travalica i confini del motivo per cui parliamo di lei. È una donna, e fa sport. Ma è anche una di quelle rare donne che ha creato dal nulla lo sport a cui si è dedicata. Prima del suo avvento una federazione del football femminile italiano non esisteva. A parte qualche ragazza audace che si dilettava in giardino con i suoi amici maschi e una sconosciuta squadra femminile che negli anni Ottanta si allenava senza avversari, nessuna ragazza era riuscita a scendere in campo per disputare un campionato.
La storia di Nausicaa e delle Vikings - il nome della squadra di femminile di Milano di cui lei e Valeria Vismara sono state le prime membre e fondatrici - emerge dal desolato quadro dello sport italiano intorno al 2010. Dopo anni passati come molte di noi a provare e scartare una dopo l'altra sport e hobbies, Nausicaa inizia a fare la cheerleader per la squadra maschile di football americano di Milano. Lei e le altre ragazze fanno figure, fanno vibrare i pom pom in alto a ogni punto o azione emozionante. È ai bordi del campo che nasce qualcosa. Un’idea, o anche solo un’intuizione di poter essere loro quelle a correre in mezzo al fango.
Di come il passaggio dai bordi del campo al desiderio di calpestarlo sia avvenuto in maniera fluida, Nausicaa dell'Orto lo racconta in un'intervista uscita recentemente su Vanity Fair
«Ogni touchdown, ogni placcaggio mi accendevano un fuoco dentro e non riuscivo a stare ferma. Un giorno mi sono detta: “basta, io devo scendere in campo a giocare!”. Ho buttato i pom pom a terra e mi sono ritrovata con un’altra compagna di squadra che voleva giocare come me, Valeria Vismara, figlia di un coach di football americano. Siamo andate insieme dal Presidente della società dicendo che volevamo creare una squadra».
Nausicaa si guarda intorno, parla con le altre cheerleader o con le ragazze che, esattamente come lei, hanno solo ruoli marginali nel panorama milanese: segnapunti, o aiutanti della squadra dei ragazzi. Sorpresa: il suo fuoco è condiviso. Lei e Valeria si propongono a Marco Mutti, il presidente e proprietario della squadra maschile. Chiedono supporto, di poter usare il campo per gli allenamenti nei momenti di ritaglio fra una pratica e l’altra della squadra maschile, ma la loro idea viene subito bocciata con la mozione che «le donne non sono fatte per il football, e il football non è uno sport per il sesso debole».
È a seguito dei moti carbonari che viene fuori che vengono scoperte altre ragazze desiderose di divertirsi con la potenza dei loro corpi fino a quel momento rimasta inespressa.Vogliono esplodere, vogliono scontrarsi, vogliono vincere. E questo è tutto ciò che basta per mettere in moto la nascita di un sogno.
Trovare abbastanza ragazze disposte a usare il loro corpo in maniera diversa, inusitata non è un problema. È solo il presidente Mutti a credere che il loro desiderio di agire uno sport abbia che fare con la loro femminilità. Nausicaa e Valeria lo sanno, e lo sanno anche le altre ragazze che non aspettavano altro che finalmente arrivasse qualcuna a chiedere: sei dentro o sei fuori?
I problemi sarebbero stati altri, tutti quegli aspetti pratici che - di nuovo - avrebbero dovuto chiamare in causa la maggioranza maschile: il campo, le divise, il pubblico. Tutti elementi totalmente indipendenti dalle ragazze.
Ma a quel punto ogni “no“ che si aggiunge a una lista già lunga è solo benzina pura.
È il 2011. I primi allenamenti scattano in maniera ufficiosa a Parco Sempione, al fianco di Valeria e suo padre. Nel giro di qualche settimana il numero delle giocatrici cresce - siamo ancora a un livello in cui si imparano le regole, i movimenti fondamentali. Il casco, i paraspalle sono tutti diversi, un modello per ognuna di loro. La società maschile non intende investire un centesimo nelle attrezzature. Un pomeriggio Valeria trova una scatola di casacche arancioni dimenticata nella soffitta della casa di sua nonna. Chiede spiegazioni e scopre che negli anni Ottanta il padre, allora giocatore, aveva visitato le sessioni estive degli allenamenti dei Miami Hurricanes e alla fine di una stagione l’allenatore della squadra gli aveva regalato un set di casacche. Vent’anni dopo saranno vecchie, e forse non bellissime, ma sono il simbolo che le unisce e le rende tutte uguali - una squadra. Che a quel punto è tutto ciò che conta. Valeria e Nausicaa riguardano i video degli Hurricanes, quelle maglie arancioni e il gioco intenso: «Dovevamo essere fiere di indossare quelle maglie, e avevamo l’obbligo di giocare con la stessa intensità», dice Nausicaa.
Si sa come vanno queste cose. Una passeggiata al parco con un'amica, un giro in bicicletta, una sigaretta sui muretti della terrazza e di video in video, di foto in foto, altre ragazze si avvicinano incuriosite. Chiedono, vengono invitate a provare. Alcune dicono di no, altre sono incoraggiate proprio dalla presenza di altre ragazze come loro che non provano alcun imbarazzo nello scontrarsi fisicamente. È così che la squadra raggiunge le 25 giocatrici. Si danno un nome: le Vikings, e in onore delle combattenti scandinave da quel momento in poi Nausicaa scenderà in campo con le trecce lunghe sotto il casco. Un simbolo di coraggio ma anche un ricordo della sua femminilità, che resta viva, a dispetto di quello che pensava Mutti, anche sotto tutto quella bardatura.
Il verbo si diffonde, le altre trovano coraggio. L'idea che il football non sia un gioco per femminile è lievemente affievolita. Nasce una squadra anche a Bologna, le Neptunes, e proprio contro di loro le Vikings giocheranno la prima partita inaugurale del campionato femminile italiano di football americano. È il 30 giugno del 2011 e a questo punto non è più una sorpresa per nessuno che anche alle femmine piace uno sport con un impatto fisico potente, esplosivo, a tratti pericoloso. Paolo Sonzogni, un ex giocatore della squadra storica di Milano, accompagna le ragazze e ricorda la prima partita come un momento estremamente emozionante. Alla fine del match tutte le ragazze si mettono in ginocchio sul prato e applaudono rivolte verso il pubblico, poi rivolte a loro stesse mentre il commentatore urla «Women and football!».
La partita viene vinta dalle Vichinghe ma è chiaro che a perdere di fatto non è nessuno, anzi tutte escono vittoriose dal campo e alla fine si fanno pure una fotografia insieme, abbracciate e confuse.
Ma i pregiudizi di quelli rimasti fuori dal campo non scompaiono nonostante la nascita di un movimento compatto. E non basta con quanta decisione le ragazze abbiano dimostrato a tutti i costi di voler scendere in campo, c’è sempre qualcuno che si oppone. Molte di loro, racconta Valeria nel documentario Football in Italy girato da Nausicaa stessa e visibile sul canale ufficiale della NFL, dovevano nascondere ai loro genitori che si incontravano con le altre ragazze per allenarsi a football. Anche per Nausicaa è così.
«I miei genitori non sono mai stati molto entusiasti di questa mia passione. Si preoccupavano molto degli infortuni invece di pensare a tutte le cose positive che questo sport mi ha donato: la sorellanza delle mie compagne, la capacità di sacrificare corpo e anima per i miei obiettivi, il divertimento, la leadership, l’importanza del duro lavoro. Mio padre è ancora contrario, ma è del 1936 quindi è old school. Mia mamma, è venuta a vedermi giocare per la prima volta nel luglio scorso e si è davvero emozionata. Ha finalmente capito quanto questo sport mi abbia cambiato la vita in meglio».
Oggi esistono circa quindici squadre presenti in Italia ma il numero ancora troppo esiguo di giocatrici femmine fa sì che in campo si affrontino squadre da sette giocatrici, e non undici come nel campionato maschile. La lega è piccola e supportata da sponsor familiari, panifici o studi medici, e le ragazze si fanno carico del pagamento per l’affitto del campo. Siamo ben lontani dal professionismo, e infatti dice Nausicaa: «sarebbe bello essere atlete a tempo pieno ma ognuna ha il suo lavoro. Alcune di noi sono insegnanti, altre sono medici, altre ancora musiciste. La sera ci cambiamo e diventiamo giocatrici di football».
Il preconcetto più radicato è che gli sport in cui il contatto fisico ha un ruolo primario vadano a inficiare la grazia, la bellezza, la delicatezza di cui le femmine sono dotate per nascita. Ma tutto quello che le atlete agiscono dentro un campo sono semplici regole, movimenti messi alla prova e perfezionati da atleti e atlete che sono venute molto prima di loro. Sono insegnamenti da mettere in pratica dentro il campo, sono strumenti che poi si ritrovano fuori da lì.
«Quando corro io e cercano di placcarmi, mi piace il concetto che per fermarmi mi devono proprio buttare a terra. È una cosa che mi accompagna anche nella vita. Finché non mi distruggi, io non mi arrendo. Finché avrò anche solo un respiro in corpo, combatterò. E anche se mi buttano giù, mi rialzo e penso all’azione dopo. Come nella vita».
Le foto su Instagram che ritraggono Nausicaa bardata e con il casco non sono meno ipnotizzanti di quelle che la ritraggono in vacanza in Sicilia con le sue amiche. C’è una consapevolezza nel suo modo di essere una atleta donna che rende il suo mondo intero, dentro e fuori dal campo, perfettamente equilibrato fra glamour e sudore in un modo che non ho mai visto prima. Io mi ricordo le atlete che avrei voluto essere come donne solo dentro il campo, fuori da lì non avrei saputo che idea farmi di loro. E invece Nausicaa è potente e solare, ed è esattamente il modello che vorrei avere se avessi quindici anni e sognassi di diventare una atleta professionista. Molte foto la ritraggono in campo a giocare, con la sua squadra, le sue sorelle. Altre invece la vedono in posa per una campagna pubblicitaria, o in vacanza con le sue amiche.
Nelle interviste di Nausicaa è ricorrente il tema della sorellanza. L'unione con le sue compagne di squadra, un sentimento che va ben oltre l'impegno per vincere una partita. E questo lei sa dirlo meglio di noi:
«Il football è uno sport molto intenso, così è necessario che tu protegga il giocatore accanto a te. Se non lo fai, potrebbe farsi molto male. Praticamente metti la tua vita nelle mani di un altro. Questo unisce le persone, perché ti rende umile e allo stesso tempo ti fa capire che hai bisogno di un’altra persona. Il football ti insegna che cos’è la solidarietà, che cosa significano la fratellanza o la sorellanza.»
Alcune delle immagini presenti nel testo ci sono state gentilmente concesse da Nausicaa dell'Orto e sono visibili sul suo profilo Instagram. Altre sono screenshot dal suo documentario.
Grazie per la cortesia <3!
In questi mesi di pausa forzata Cecilia Zandalasini, la nostra stella internazionale di pallacanestro femminile, è di stanza in Lombardia e si allena al canestro in cortile. In un'intervista sulla Gazzetta dello sport da non perdere - fosse anche solo per la rarità dello spazio dedicato allo sport femminile all'interno del quotidiano rosa - ci racconta di tempo trascorso in famiglia a raffinare i fondamentali e a leggere libri di 600 pagine.
A proposito di letture belle e sportive, su Stack abbiamo trovato una lista delle migliori dieci riviste indipendenti sullo sport. La nostra preferita è Season Zine, una zine cartacea a cavallo fra la rivista specializzata sul calcio femminile e fashion.
Il basket giocato sul playground è uno sport vibrante in cui i falli sono solo una questione di punti di vista. Playground Addiction è un documentario pluripremiato che racconta i pomeriggi bollenti al campetto di Parco Sempione. Va da sé che nel trailer non c'è neanche l'ombra di presenza femminile - ma noi abbiamo speranza. Sappiamo che fra tutti quei giocatori maschi prima o dopo una Zarina si è avventurata o lo farà presto. Ecco perché lo trovate in questa lista anche se nelle immagini compaiono solo atleti dotati di pene. Prendetelo come il nostro atto di fede.
Dopo la respinta della richiesta della nazionale di calcio femminile americana - campione del mondo in carica - di ottenere la parità salariale con i colleghi maschi (CORO GRECO FUORI CAMPO: quindi quale prestazione dobbiamo portare a casa, esattamente, per chiedere e ottenere un aumento di stipendio?), l'avvento del CoVid19 minaccia adesso di rallentare il flusso d'attenzione che lo sport femminile si è guadagnato duramente negli ultimi anni. Un articolo del NY Times fa una carrellata degli sport più celebri negli Stati Uniti.
Sabato 23 maggio si è infine concluso il mese del Ramadan (Eid Mubarak!). Ramla Ali, pugile somalo-inglese, racconta su The Players Tribune che cosa significa essere una sportiva professionista che si allena due volte al giorno e allo stesso tempo osserva il digiuno totale di cibo e acqua dall'alba al tramonto. Ramla racconta di come siano i primi quattro giorni a essere i più duri, dopo di che sia il corpo che la mente si abituano ai nuovi ritmi e il sacrificio diventa più sopportabile.
Why I fast è il racconto ravvicinato di un momento fondante della vita di ogni (sportiv*) musulman* osservante. Assolutamente da leggere.
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