High Five! Sei su Zarina.
Mi presento. Io sono Giorgia e ti mando questa newsletter sullo sport femminile una volta al mese, l’ultimo sabato del mese.
Zarina racconta le storie di ragazze affascinanti in tuta da ginnastica, ogni donna che ha una storia legata al mondo dello sport, non importa se come atleta in senso stretto o come persona che ha fatto dell’attività sportiva un capitolo importante della propria vita.
In questo numero l’intro è breve (perché l’ars è molto longa) ed è più che altro un indice di quello che troverete in questa newsletter polposa.
La Zarina del mese che è Laurel Hubbard, la prima donna trans a partecipare alle Olimpiadi ad opera di Antonia Caruso.
Goleadora che è il nuovo podcast di Zarina sul calcio femminile.
Un pezzo corale sulle atlete che stiamo seguendo in questa Olimpiade.
Una canzone che piace a me e che vi consiglio di ascoltare.
Questo è lo sparo della pistola. Potete iniziare a correre molto veloce.
La Zarina di Giugno è Laurel Hubbard
di Antonia Caruso
Laurel Hubbard sarà la prima atleta trans a gareggiare alle Olimpiadi. Come quasi da tradizione non appena un’atleta trans è qualificata per una competizione sorgono più o meno sempre le stesse le polemiche. Una donna trans ha un fisico diverso rispetto a una donna cisgenere, ha più forza, più muscoli, più resistenza. In sostanza: è più avvantaggiata e non rispetta il fair play, che dovrebbe essere uno dei capisaldi dello sport e lo è sicuramente dei Giochi Olimpici.
Hubbard ha 43 anni, è neozelandese e lunedì 2 agosto gareggerà come sollevatrice di pesi nella categoria di peso superiori agli 87 chili, cioè pesi supermassimi.
Hubber esordisce nel sollevamento pesi nel 1998, nel 2001 lascia lo sport. Ha scelto uno sport per maschilizzarsi, ma è troppo. Ha fatto come molte donne trans la cui gestione momentanea è l’ipermascolizzazione, spesso attraverso la disciplina sportiva o quella militare.
Finalmente nel 2012 inizia la transizione e successivamente riprende a gareggiare. Nel 2017 segna un record di sollevamento con 113 kg ai North Island Games e vince un oro ai campionati australiani. Durante i Giochi del Commonwealth Hubbard si infortuna al gomito e deve abbandonare la gara. Pensa di lasciare lo sport agonistico ma l’anno successivo torna e vince un po’ di gare.
Sono tantissime le atlete cis (ma non solo atlete) che in ogni occasione denunciano che il posto delle donne viene depredato da uomini che si fingono donne. Il pregiudizio transfobico non è una peculiarità dello sport. Soprattutto negli ultimi anni le persone trans e in particolare le donne trans sono state un bersaglio, anche molto facile.
Per anni l’esperienza e l’identità trans sono state relegate all’ambito del sex work, del proibito, del vizio, oppure dello spettacolo, soubrette, spettacoli, varietà, ballerine.
Le donne trans hanno potuto usare il corpo come volevano ma sempre in determinati ambiti e con determinate restrizioni. Per chi fa sex work in strada la divisione in zone è essenziale.
Quando il corpo trans è entrato in una diretta competizione, ad esempio nello sport, è scattato il gender panic, quel sentimento di sgomento davanti ad espressioni e identità di genere non conformi.
Non è facile definire in maniera netta cosa vuol dire essere trans. Non è solo sofferenza, chirurgia, medicina. Non è solo la narrazione del corpo sbagliato, anche perché se parliamo di corpi allenati le differenze per certi versi possono non essere così marcate. È anche una questione sociale, di espressione di genere, di rapporti interpersonali e di ruoli sociali.
La percezione delle differenze di genere è determinata culturalmente, così come lo è l’erotismo dei corpi. La divisione di genere ha anche una componente di erotismo e di sessuazione.
A parte le ovvie differenze più che biologiche direi morfologiche e funzionali (cioè molto prosaicamente: la continuazione della specie) tra un corpo considerato femminile e un corpo considerato maschile, i concetti di maschile e femminile sono del tutto culturali. Così come lo è il modo in cui leggiamo e interpretiamo i corpi, primi tra tutti i corpi intersex.
Chi nasce con genitali non riconducibili come maschili o femminili viene spesso sottopost* a interventi chirurgici assolutamente non consensuali per rendere i genitali più simili a una o all’altra conformazione rispetto a un genitale standard.
Inoltre la condizione intersex non è solo una questione di variazioni morfologiche dei genitali ma anche di cromosomi, che fortunatamente non sono manipolabili, per cui ci possono essere altre possibilità di combinazione del cromosoma X e del cromosoma Y. Oltre a XX e XY ci possono essere altre forme come XXY, conosciuta come sindrome di Klinfelter.
Altre possibilità di variazione possono essere nel sistema endocrino, nella produzione di ormoni da un lato e nei recettori ormonali dall’altro. Il corpo umano può produrre determinate quantità di ormoni ma non è detto che questi stessi ormoni possano essere assimilati dall’organismo.
nel video Hubbard ai Campionati Mondiali del 2019 (in cui si qualifica al sesto posto)
È quindi lo sguardo medico che non solo vede un binarismo di genere ma costringe i corpi ad adattarsi ad esso anche quando non sono evidenti delle situazioni che compromettono la salute. Il binarismo di genere è un impianto concettuale facile. Dividere la realtà in due aiuta a tenere sotto controllo il caos. I maschi di qua, le femmine di là. Noi di qua, voi di là. I sani di qua, i malati di là. È una tassonomia semplice e non richiede particolari sforzi interpretativi.
Nonostante questo la disciplina della medicina occidentale si è formata nella dissezione minuziosa del corpo, nei singoli valori biometrici.
Parlando di sesso, genere e sport bisogna quindi tenere in considerazione sia le variabili legate all’intersessualità che quelle legate all’identità trans. Senza confonderle ma tenendole entrambe ben presenti come identità che fuoriescono da una concezione binaria.
Da una parte abbiamo quindi uno stato di cose, o meglio, un supposto stato di cose. I due sessi e tutti gli spazi pubblici e privati con una rigida segregazione. Dall’altra elementi emergenti che non rientrano negli schemi, corpi intersex, corpi trans, senza che questo rientrare negli schemi debba essere letto come una rottura volutamente sovversiva, ma di diritto umano.
Le persone intersex ci sono sempre state e probabilmente hanno anche gareggiato in passato. Ciò che è cambiato sono lo sguardo, gli strumenti e le regole. Così come le persone trans sono sempre esistite ma le pratiche – mediche (ormoni e chirurgia) e di autodeterminazione (coming out, transizione non medicalizzata) – erano altre o proprio non esistevano.
L’identità trans è determinata dal luogo e dal periodo storico. C’è un “modo” istituzionale di essere trans ed è quello che rientra nei protocolli e nella valutazioni psichiatriche, nelle tecniche mediche permesse o meno, e c’è un modo non istituzionale, dove l’autodeterminarsi come persona trans è abbastanza. Ogni percorso è valido ma in contesti istituzionali e burocratici (come le Olimpiadi) solo la prima si può considerare valida.
Emergono ben definiti due tipi di atteggiamento nei confronti delle atlete trans. Uno di rifiuto, dove le persone non conformi appunto non vengono accettate, e che appartiene a molte atlete cis, e uno di presa in carico, che è quello che timidamente cerca di fare il Comitato Olimpico Internazionale (CIO).
Nel 2003 il CIO aveva stilato le prime linee guida riguardo le persone trans che avessero voluto essere qualificate per i Giochi Olimpici.
Le regole erano molto stringenti ed esprimevano una decisa correlazione tra genitali, sesso e genere. Infatti era richiesta la rettifica chirurgica dei genitali, cioè cambiamenti esterni dei genitali e asportazione delle gonadi da almeno due anni. Inoltre doveva essere avvenuto il riconoscimento legale ufficiale del sesso assegnato. E poi le atlete avrebbero dovuto fare una terapia ormonale adeguata a minimizzare i vantaggi legati al genere nelle competizioni sportive.
Nel 2015 le regole del CIO sono state aggiornate rendendo di fatto il testosterone il protagonista indiscusso. Gli atleti trans, cioè che hanno fatto un percorso dal femminile al maschile, non subiscono restrizioni di sorta.
Le atlete trans, cioè che hanno fatto un percorso dal maschile al femminile, invece devono osservare quattro punti essenziali. Le atlete che hanno dichiarato la propria identità come femminile devono averlo fatto almeno prima dei quattro anni precedenti. Devono dimostrare che il livello di testosterone nel siero del sangue dev’essere inferiore alle 10 nanomole per litro per i 12 mesi precedenti alla prima gara e deve rimanere tale per il periodo di eleggibilità nella categoria femminile. In caso di mancato rispetto di questi requisiti l’eleggibilità verrà sospesa per 12 mesi. Inoltre non è più necessaria la chirurgia genitale.
Ciò che rimane è un atteggiamento biometrico iperburocratizzato. Riducendo tutto a un semplice valore del sangue si elimina tutto il resto. Scompare la preparazione atletica, scompare l’impegno emotivo. Scompaiono, o perlomeno, sono messi in disparte alcuni dei valori della Carta Olimpica, come la spinta ad a dare il meglio di sé, la celebrazione dell’amicizia, e il rispetto. Così come viene messo in discussione il principio per cui “ogni forma di discriminazione verso un Paese o una persona, sia essa di natura razziale, religiosa, politica, di sesso o altro è incompatibile con l'appartenenza al Movimento Olimpico.”
Il testosterone è uno degli ormoni prodotti dal corpo umano ed è sbagliato considerarlo unicamente come un ormone maschile. È prodotto in maggior quantità dai corpi considerati maschili e in minor quantità dai corpi considerati femminili.
Le terapie ormonali sostitutive per le persone trans che intendono maschilizzarsi infatti prevede un aumento del testosterone del corpo (che si va ad aggiungere a quello già prodotto dal corpo) mentre per le persone che vogliono femminilizzarsi sono previste sia una somministrazione di estrogeni che un inibitore di testosterone. L’effetto principale dell’assunzione di testosterone è l’aumento della massa muscolare e in un corpo in continuo allenamento l’aumento è considerevole. Al contrario l’abbassamento del testosterone ne provoca una diminuzione.
Atlete intersex come Caster Semenya da anni al centro di polemiche o Christine Mboma e Beatrice Maslingi non sono state ammesse ai giochi olimpici. Tutte messe in difficoltà dal sistema che ha considerato i loro livelli di testosterone troppo alti, per cui è stato richiesto loro di abbassare chimicamente i loro livelli di testosterone. Una scelta che, peraltro, in nome del fair play va contro “lo sviluppo armonico dell’uomo” come citato nella carta olimpica.
Per le atlete trans emerge invece il timore della frode, del farsi passare per donne per vincere nelle gare femminili. In un mondo dominato dagli uomini può succedere che l’idea che ci siano ulteriori uomini può spaventare. A parte il fatto che le donne trans non sono uomini.
La frode, l'inganno sono alcuni dei pilastri concettuali della transfobia. Le donne trans sono costantemente considerate uomini che volutamente ingannano gli altri, nelle relazioni (basti pensare alle innumerevoli scene di film dove si scopre “la sorpresa”) e nello sport. Le femministe transfobiche usano strumentalmente il rischio di stupro per argomentare l'esclusione delle donne trans dagli spogliatoi e da altri spazi divisi per genere, come ospedali e carceri.
Non ho una soluzione definita ma forse molto banalmente, da attivista e persona trans, non posso concepire che le persone trans e intersex possano venire escluse dalle competizioni agonistiche, né che possano venire richieste delle modifiche al loro corpo per stare all'interno di un range biometrico accettabile.
Il punto, quindi, è di tenere in equilibrio la possibilità per le donne trans e intersex di gareggiare, la necessità di mantenere il fair play e il rispetto per corpi non binari.
Antonia Caruso è attivista trans/femminista. Ha studiato cinema, fotografia e semiotica tra Roma e Bologna. Al momento scrive prevalentemente di cose trans. Ha ideato il progetto Universitrans e collabora con varie associazioni LGBTQI.
Goleadora – il podcast di Zarina
Goleadora è il podcast di Zarina sul calcio femminile. Questa qui è la prima puntata: chi siamo, dove siamo e da dove partiamo.
Io ed Elena Marinelli vi racconteremo cosa accade nel calcio e anche nel mondo sportivo intorno ad esso. La musica è di Paolo Ruta. La potete ascoltare su Spotify, Spreaker e tutte le altre piattaforme di podcasting (a parte Apple, ma ci stiamo lavorando).
Se vi va di lasciarci un feedback rispondete a questa mail o scriveteci in PVT sul profilo Instagram.
Piccolo intermezzo sulle Olimpiadi
Seguire tutte le gare delle atlete che ci interessano a queste Olimpiadi è la vera missione di luglio. Zarina per esempio si è fatta venire in mente un canale Telegram in cui un team composto da Elena Marinelli, Olga Campofreda, Tiziana Scalabrin, Giuliana Lorenzo, Gaetano Gorgone e Giorgia Bernardini (io!) commentano le gare, postano curiosità o foto, e ci tengono aggiornat* sui risultati più o meno in tempo reale (e vi giuro che qualcun* qui setta persino la sveglia per seguire le gare in notturna. Che eroi ed eroine).
Uno degli aspetti più divertenti delle gare olimpiche è che ti siedi sul divano il primo giorno appena prima della sfilata inaugurale e ti rialzi l’ultimo – e tutto questo senza nessun senso di colpa. Io per esempio ho lasciato il mio sofa nuovo solo per andare a fare la spesa e lo farò una seconda volta per andare a prendere qualcuno all’aeroporto BER.
Ma c’è anche un aspetto conoscitivo che è imprescindibile dall’evento. Mi è capitato, nel seguire le atlete e gli atleti che interessavano me, di incontrarne casualmente altr*, e di appassionarmi alla loro tecnica, al loro modo di stare sulla pedana o in campo. In queste mattine ho pianto spesso per l’emozione. Mi è successo quando ho seguito il terzo e ultimo round in cui Giordana Sorrentino (pugile peso fly) ha provato con tutte le sue forze di combattente a recuperare un punteggio che la vedeva perdere per 5-0 contro Hsiao Wen. Ci ha messo dentro tutto, ha cercato di spostare lo svantaggio delle leve molto più corte rispetto all’avversaria e lo ha fatto con intelligenza e cuore, cercando un varco con pazienza ed andando poi a colpirla con potenza. Ad un certo punto l’ha scaraventata per terra con un sinistro devastante e questo arrembaggio per certi aspetti misuratamente disperato mi ha fatto appassionare a Sorrentino e adesso la seguirò fino all’ultimo giorno che starà su un ring.
Questa Olimpiade è speciale per una serie di motivi noti: è arrivata dopo una pandemia, e fino all’ultimo non si sapeva se si sarebbe fatta. Molt* atlet* sono arrivat* qui stanch* mentalmente ed emotivamente, un po’ perché l’ultimo anno e mezzo è stato importante, un po’ perché alcun* avevano già pianificato un ritiro alla fine della scorsa estate e poi hanno dovuto tirare per le lunghe ancora dodici mesi. In certe prestazioni l’anno forzato si è visto e alcun* di noi (parlo del pubblico, ma anche di chi fa informazione o di chi lavora nel mondo dello sport) stanno assistendo a queste prestazioni con una sensibilità ed una comprensione che prima del 2020 forse non ci sarebbe stata. Speriamo di non tornare indietro da qui. Speriamo di non tornare indietro da un momento in cui il ritiro di un* atleta per motivi di salute fisica o mentale proprio nel cuore di un evento sportivo importantissimo possa essere un’opzione plausibile.
Il mio invito a me stessa quando mi esalto per una Sorrentino che combatte come se fosse l’ultima volta sul ring è di non crederla mai invincibile e di non far fare alla mia testa quello scatto mentale che me la fa pensare anche solo per un momento divina. Ma per quanto la tentazione sia sempre alta, paragonare un*atleta ad un entità di cui ho letto le caratteristiche non umane in un libro di mitologia greca non è salutare per me – che mi inganno e mi voglio convincere che un essere umano possa fare cose non umane – e per l’atleta stess* – che in un modo o nell’altro viene rivestit* di questo compito insopportabile da portarsi addosso.
Questa è anche la prima Olimpiade in cui sembra possibile poter dire: “É ok non essere ok”, dove stiamo assistendo alla partecipazione di una donna transgender, dove un intero podio di uno sport esordiente come lo skateboard è composto da atlete poco più che bambine. Per la prima volta poi abbiamo Instagram e stiamo osservando la vita degli e delle atlete da un punto di vista così intimo e ravvicinato come mai prima. Ognun* di noi in questa prima settimana di Giochi ha scelto nuov* atlet* di cui seguire le storie e l’evoluzione della parabola sportiva. A questo proposito ho chiesto ad alcun* scrittori e scrittrici di sport di raccontarmi una sportiva che avrebbero seguito durante il suo cammino olimpionico.
Ne è venuto fuori un pezzo corale di storie più o meno note. Segnatevi i nomi.
Collective
di Tiziana Scalabrin
A Tokyo 2020 seguo la ginnastica artistica, soprattutto femminile: per me è lo sport che rende affascinanti le Olimpiadi, e il mio sport olimpico preferito. Quest’anno c’è la favola di Vanessa Ferrari, che a 30 anni, dopo l’ultimo bruttissimo infortunio di una lunga serie, si è qualificata all’ultimo momento per Tokyo, la sua quarta Olimpiade, per cercare l’ultima medaglia che le manca (ne ho scritto qui).
Seguo il tennis, e mi sono commossa fino alle lacrime quando ho visto Naomi Osaka, alla fine della cerimonia di inaugurazione, prendere la torcia e salire a accendere il braciere olimpico. Prima volta del tennis per il massimo onore che possa spettare alla carriera di uno sportivo, ed è importante che sia stata Naomi: dopo i mesi passati lontana dal tennis, tra critiche e accuse, torna senza dire una parola, con le treccine rosse bellissime abbinate ai colori della divisa.
Questo torneo è importante per Naomi, ma ci sono anche altri sogni che mi emozionerebbe vedere realizzati: il primo è una medaglia per Petra Kvitova. A Rio era stata medaglia di bronzo, sconfitta in semifinale da Puig (primo oro Portoricano); ma nell’inverno di quell’anno era stata aggredita e accoltellata alla mano sinistra, quella con cui gioca. C’è il team russo che ha portato i giocatori più interessanti in tutti i tabelloni e non vedo l’ora di vedere quali medaglie riuscirà a portare a casa; le ragazze spagnole in fiducia; e soprattutto Camila Giorgi, che quando gioca bene fa paura a tutte, e ultimamente sta giocando molto, molto bene.
Alle Olimpiadi non mi perdo mai l’atletica: quest’anno mi sono appassionata a Dalia Kaddari, che arriva da campionessa europea U23. E poi faccio il tifo per la nostra pallavolo, e per la scherma (meglio se raccontata da Olga).
Vanessa Ferrari
di Giuliana Lorenzo
Tania Cagnotto all’ultima Olimpiade a cui prese parte riuscì finalmente a rompere la maledizione olimpica e a portare a casa non una ma ben due medaglie. L’esempio di Tania, cha a Tokyo non ci sarà, potrebbe essere di buon auspicio per la zarina italiana della Ginnastica Artistica.
Vanessa Ferrari, 30 anni, pratica ginnastica da quando ne ha 7 e non ha mai vinto una medaglia ai Giochi Olimpici. Dai Giochi è sempre tornata con le ossa (metaforicamente ma nemmeno troppo) rotte, con una delusione enorme.
La prima ginnasta italiana a vincere un titolo Mondiale (era il 2006) all’Olimpiade non è mai riuscita a prendere il volo. La farfalla di Orzinuovi con la qualificazione a Tokyo, sudata fino all’ultimo, ha raggiunto quota quattro edizioni dei Giochi.
A Pechino 2008 era la più giovane di tutta la spedizione azzurra, ci arrivava carica, entusiasta come solo una 17enne che vede i suoi sacrifici ripagati può essere. La realtà fu ben diversa: in Cina chiuse 11esima con problemi al tendine d’Achille destro. Non andò meglio a Londra 2012 e a Rio 2016. Le due edizioni dei Giochi furono l’una la fotocopia dell’altra almeno per il piazzamento: termina sempre quarta. A Londra arriva la beffa, ottiene lo stesso punteggio della terza. Nella ginnastica, però, almeno alle Olimpiadi, non esiste il pari merito e viene premiata l’atleta con un coefficiente di difficoltà maggiore che in questo caso non era Vanessa. A Rio commette un errore, viene penalizzata e raccoglie la medaglia di bronzo. Dopo ogni edizione dei Giochi, la leonessa di Brescia pensa di smettere, di mollare. Poi si ricorda chi è, quanti sacrifici abbia fatto e soprattutto quanto ami questo sport. Nonostante varie operazioni ai piedi, una malattia autoimmune e la rottura del tendine d’Achille sinistro nel 2017, Vanessa si rimette in gioco. Dopo Rio aveva deciso di competere solo al corpo libero tralasciando tutti gli attrezzi. Poi con la pandemia è cambiato tutto: temendo di non riuscire a ottenere il pass individuale (cosa che è riuscita a fare il 26 giugno 2021 a Doha) ha ripreso a competere su tutti gli attrezzi. La sua perseveranza e la sua caparbietà sono state utili anche per i colori azzurri. Vanessa è stata, in qualche modo, lungimirante visto che per infortunio una delle Fate convocate, Giorgia Villa, non ha potuto partire per il Giappone e il posto in squadra è stato dato alla Ferrari che cercherà anche di qualificarsi per la finale al corpo ibero. A squadre non sarà semplice anche perché le italiane non sono apparse al top della forma mentre a livello individuale ha più speranze. Di certo l’oro appare un miraggio visto la presenza di una fuoriclasse come Simone Biles, ma per un piazzamento sul podio potrebbe giocarsela ad armi pari. Come successo a Tania, si meriterebbe di rompere la maledizione, se lo meriterebbe per concludere una carriera straordinaria e anche piuttosto longeva visto lo sport che pratica. La ginnastica, come lei stesso ha spesso spiegato, sa essere uno sport crudele ma Vanessa ha un fuoco sacro che arde pronto a esplodere e a farle fare faville in pedana.
Ginnastica ritmica
di Paola Moretti
Delle Olimpiadi di Tokyo seguirò con particolare interesse la ginnastica ritmica. La competizione di quest’anno si divide in all-around individuale, di cui si terranno le qualificazioni venerdì sei agosto (alle 3:20 e alle 7:50), e concorso a squadre, di cui si terranno le qualificazioni sabato sette agosto (alle 3:00). Nel concorso individuale le atlete si dovranno esibire nell’esecuzione di quattro esercizi con quattro attrezzi differenti, in quella a squadre cinque ginnaste si esibiscono contemporaneamente in pedana con due esercizi differenti.
La squadra italiana quest’anno presenta un esercizio a cinque palle e uno misto: tre cerchi e due clavette.
Dopo il turno di eliminazioni le dieci finaliste dell’individuale gareggeranno sabato sette agosto (alle 8:20), mentre le otto squadre selezionate disputeranno la finale domenica otto agosto (alle 4:00).
Le italiane della ritmica quest’anno hanno ottenuto eccellenti risultati, prima in ordine cronologico Sofia Raffaeli che nella Coppa del Mondo a Sofia si aggiudica un argento per l’esercizio con il nastro e un bronzo alle clavette. Durante la Coppa del Mondo a Baku, alle individuali Alexandra Agiurgiuculese ha conquistato l’oro con l’esercizio alla palla; nella competizione a squadre, invece, le Farfalle si sono meritate la medaglia d’argento.
Sono state meno brillanti le performance della Coppa del Mondo a Pesaro, tenutasi qualche settimana dopo quella in Azerbaigian, dove le azzurre sono rimaste escluse dal podio per poco.
A Tokyo tenteranno comunque il colpaccio perché, come sostiene la capitana della squadra Alessia Maurelli in un’intervista pre-olimpiadi, l’anno in più che gli ha concesso il rinvio ha dato loro la possibilità di costruire un esercizio più complesso, con cui ottenere un punteggio più alto. La squadra di quest’anno è composta dalle veterane Maurelli, Centofanti, Santandrea, Agnese Duranti e dalle esordienti olimpiche Daniela Mogurean e Laura Paris. Come individualiste l’Italia sarà rappresentata da Alexandra Agiurgiuculese e Milena Baldassare.
Le principali avversarie, sia nel concorso a squadre che in quello individuali, saranno Russia, Bulgaria, Israele, Bielorussia e Giappone.
Olga Kharlan
di Olga Campofreda
A Tokyo 2020 c’è una Zarina che ha un posto speciale nel mio cuore: è la sciabolatrice ucraina Olga Kharlan, classe 1990. L’ho osservata varie volte in competizione, ma ho iniziato a seguirla anche sui social dopo averla vista in un video della redbull (brand che la sponsorizza, come per tutti gli atleti cool). Nel video Kharlan raccontava un aneddoto della sua infanzia in Ucraina: a causa delle condizioni economiche della famiglia, appena qualificata per le prime gare internazionali, non aveva abbastanza soldi per far stampare il suo nome sulla divisa come da regolamento. La soluzione, rivela, è arrivata dalla mamma, una pittrice, che le ha disegnato quella scritta a mano con una penna da tessuto. Il primo stipendio da atleta è stato speso così, per sua madre. E mi commuove pensare quanto, in uno sport piuttosto elitario quanto la scherma, una delle atlete più forti del mondo si sia fatta spazio a colpi di grinta partendo da una posizione di non privilegio.
Olga Kharlan adesso si allena alla Virtus di Bologna, una delle palestre migliori per la specialità della sciabola (momentino di orgoglio italiano. Ok, fatto). Seguirla in gara a Tokyo significa testimoniare l’avventura di una delle atlete più forti del mondo alla conquista dell’unico metallo che le manca: l’oro individuale. Quando penso che l’oro a squadre lo ha vinto a Pechino 2008, a soli 17 anni, la mia ammirazione raggiunge limiti incommensurabili. Nel frattempo, grazie alla sua incredibile capacità di pianificazione e analisi, Kharlan si è incoronata tre volte campionessa del mondo. Su instagram consiglio vivamente di spiare le scenette comico-romantiche girate insieme al suo fidanzato, l’italianissimo sciabolatore Luigi Samele.
Il video della redbull:
Vivianne Miedema
di Elena Marinelli
È il 7’ del primo tempo. Una calciatrice olandese dell’Arsenal, Daniëlle van de Donk va incontro alla palla e la tocca di destro, perché vede arrivare una compagna di squadra fidata e puntuale. È Vivianne Miedema: riceve e se ne va fino al limite dell’area piccola. Un occhio in su, vede la porta e una compagna che sta occupando veloce lo spazio davanti alla porta, ma soprattutto vede la porta, come al solito, e tira di sinistro. Palo più lontano, all’interno, gol.
La palla rotola e accarezza la rete, si lascia cullare un po’ più del solito e sottolinea la marcatura, fa il gol più tondo, più completo, perché la sfera lo sa: è uno dei più importanti della sua carriera.
Il 18 ottobre 2020 al 7’ del primo tempo, Vivianne Miedema, 24 anni, segna il cinquantesimo gol in cinquanta partite, diventando la miglior marcatrice di sempre della FA WSL, sorpassando Nikita Parris, detentrice del record di 49 reti in 110 match.
Entra nella storia del calcio femminile inglese e prima di abbracciare tutte, con il sorriso che si allarga man mano che le compagne la raggiungono, agita il pugno in alto, verso il niente e davanti a nessuno. Più o meno in quel momento, comunque dopo quella partita, penso che sarebbe stato uno spasso vederla rincorrere i gol anche ai Giochi Olimpici, quasi certa di assistere a un campionario multiforme. Magari sarebbero arrivati uno dopo l’altro durante le partite: un colpo di esterno che si infila, una ruleta veloce, un tiro al volo o ancora un tocco facile davanti alla porta.
Dopo quella partita dell’Arsenal contro il Tottenham, finita 6 – 1 con, tra gli altri, ancora due gol della olandese, Miedema dice: «Fino a un anno fa non sapevo nemmeno cosa volesse dire GOAT. Pensavo: “Non è carino che le persone mi diano della capra. Non è l’animale migliore del mondo.”»
Luna Solomon
di Stefano Rosso
La mia Zarina si chiama Luna Solomon, non ha Instagram ed è arrivata 50esima nel tiro a segno con la carabina da 10 metri per il team Refugee (sì, ha già fatto tutto sabato notte, così ho messo una sola sveglia 😉). È originaria dell'Eritrea, ma è fuggita in Svizzera dove ha trovato asilo politico e ottenuto lo status di rifugiata. E dove ha scoperto il tiro a segno. Due anni fa.
La sua storia è incredibile. È come scrivere un messaggio, molto sentito, su Whatsapp. Lo pensi. Immagini come metterlo giù. Lo scrivi. Poi lo rileggi. Non ti piace. Cancelli. Ricominci da capo. Prima di inviare. E tu dall'altra parte leggi solo che qualcuno "sta scrivendo" e non vedi l'ora di leggerlo. Ma non arriva mai.
Luna ha cancellato le prime righe della sua vita scappando da un paese dove - ipsa dixit, sul canale olimpico - "per le donnenon c'è libertà". Era il 2015. Attraversa il deserto. Libia. Attraversa il mare. Svizzera. Un posto completamente diverso dal suo solito orizzonte. Si insedia. Si integra. Comincia a lavorare come maestra. Si sposa.
Poi trova un volantino, firmato Niccolò Campriani (3 ori e un argento nel tiro a segno tra Londra 2012 e Rio 2016). Cerca rifugiati da avviare alla carabina sportiva con un obiettivo: portarli a Tokyo 2020. Era marzo 2019. Un anno e 4 mesi malcontati. E nessuno di loro aveva mai preso un fucile in mano. Luna si presenta alle audizioni: i posti sono 2 e lei è la terza. D'altronde ci vuole una carabina per gareggiare. E quelle che Niccolò ha a disposizione sono solo due. Altro messaggio scritto da cancellare.
Ma Campriani scrive al Museo Olimpico di Losanna per richiedere indietro quella con cui vinse i 2 ori di Rio, che dopo il suo ritiro aveva prestato per l'esposizione. Ecco la prima carabina di Luna. Ok, si torna a scrivere.
Un anno di allenamento, viaggi, gare, punteggi: qualificata. Luna può andare a Tokyo. Ma nel frattempo ha anche una vita al di fuori del poligono. E rimane incinta. E a febbraio 2020, in piena pandemia, partorisce. E ha altro per la testa. Ed è ovvio che in quel momento cancelli tutto quello che ha già scritto.
Poi arriva Marzo 2020. Ufficiale: Giochi Olimpici rinviati. Niccolò e Luna guadagnano un anno. Di allenamento, ma soprattutto di svezzamento. Il bimbo sta a casa col papà e Luna comincia un nuovo messaggio.
Luglio 2021, si parte per Tokyo. Scalo a Doha. Qualche flash e l'ultimo allenamento. Solito giro di tamponi. C'è un positivo nello staff. Spedizione bloccata e quarantenata. È il 15. Luna ha la sua unica gara il 24. E la quarantena dura 10 giorni. Ancora volta, cancella tutto e riscrivi.
Ma stavolta il messaggio è breve. Si trova una soluzione per differenziare le quarantene. Luna arriva finalmente a Tokyo. Giusto in tempo per schiacciare il tasto invia e mandare i suo messaggio. Anzi. Il grilletto. Comincia finalmente l'Olimpiade di Luna Solomon dall'Eritrea. Rifugiata. Madre. Atleta olimpica. E qualsiasi altra cosa le verrà in mente di (ri)cominciare a scrivere.
Sarah Sjöström
di Dario Costa
Tra le cose più difficili che si possono chiedere ad un’atleta c’è quella di dare una forma concreta a qualcosa di etereo come il sogno olimpico. Si tratta di un’impresa complicata perché in quel sogno confluiscono anni di allenamenti, rinunce, sacrifici, speranze e paure.
Tuttavia, con gli occhi puntati verso Tokyo, per Sarah Sjöström la reificazione del sogno a cinque cerchi potrebbe risultare quasi automatica: per la nuotatrice svedese la trasferta giapponese avrà le sembianze di una piccola placca di metallo fissata con sei viti. Una placca di metallo che lo scorso febbraio ha tenuto insieme il gomito destro di Sjöström, fratturato dopo un incidente del tutto casuale.
Come molti colleghi e colleghe, la ragazza originaria di Salem, cittadina a mezz’ora d’auto da Stoccolma, ha dovuto subire le conseguenze della pandemia da Covid-19. Pur non avendo contratto il virus, infatti, Sjöström è stata costretta a trascorrere in patria la stagione invernale di solito impiegata allenandosi in climi più temperati, scivolando sulla più classica - e scandinava - delle lastre di ghiaccio.
L’intervento chirurgico, che inizialmente ne aveva messo in dubbio la partecipazione ai giochi, peserà non poco sulle prestazioni di Sjöström, in particolare nella scelta delle specialità a cui dedicarsi. Lo stile a farfalla, il pezzo forte del suo repertorio che le è valso oltre il 75% delle medaglie vinte in carriera, appare fuori portata per una questione di meccanica e resistenza del braccio infortunato. Sjöström dovrà quindi puntare tutto sullo stile libero per provare a replicare le imprese compiute a Rio de Janeiro nel 2016.
A quasi 28 anni, in uno sport come il nuoto dove la longevità è un dono rarissimo, Tokyo potrebbe inoltre rappresentare l’ultima opportunità olimpica per Sjöström. Lei, tuttavia, sembra tollerare bene la pressione e, con la sua placca di metallo nel gomito, preferisce paragonarsi al protagonista di un film cult degli anni ’80.
Hend Zaza
di Mauro Mondello
C'è una strada che taglia la Siria da Nord verso Sud. Sono 470 chilometri di polvere che si mischia al cemento, di automobili cariche di animali e tessuti, di ricordi lontani che riempiono le aree di sosta, nel vuoto della depressione catartica, immersi nel silenzio del tavolato arabico.
Si chiama M5, quella lingua di asfalto, ma per i siriani è la "strada internazionale", il tratto infinito che collega le due città simbolo della nazione, Aleppo e Damasco, e da lì alla Turchia, verso Nord, o giù per la Giordania, sul fronte meridionale. E' una strada, la M5, che si distende quasi dritta, una linea retta interrotta nel mezzo soltanto da Homs e da Hama, le due città fortezza, le comunità assediate durante la guerra civile per tre lunghissimi anni, dal 2011 al 2014, con il blocco degli approvvigionamenti e una lista interminabile di morti prima della definitiva capitolazione in favore del regime di Assad.
A pochi passi da quella strada, in mezzo al frastuono dei colpi di mortaio, fra un attacco aereo notturno e settimane passate in assenza di luce elettrica, è cresciuta Hend Zaza, la ragazzina nata nel 2009 che, a 12 anni e 204 giorni, è oggi la più giovane atleta delle Olimpiadi di Tokyo, la quinta più piccola di sempre a partecipare alla competizione. Il suo sport è il ping-pong, che ha cominciato a giocare a 5 anni su tavole di legno improvvisate, senza scarpe, utilizzando le racchette con la gomma scollata che le passava il fratello più grande. Quando colpisce la pallina tutto si capovolge nel mondo di Hend: non sente più le bombe, ma solo la forza di chi si dimentica di essere una bambina. E' così forte Hend, con una racchetta da ping ping fra le mani, che in poco tempo si trova invitata ai tornei più importanti del mondo. Tornei ai quali, però, non può però partecipare: la guerra le impedisce di partire. Hend ha una chance, una soltanto, per dimostrare il suo talento, ed è il torneo di qualificazione olimpica di Amman, nel febbraio del 2020. Si mette in macchina con i genitori e il fratello e via, sulla M5, in direzione Giordania, a sfidare la libanese Mariana Sahakina, che è nata nel 1977 e ha quasi dieci anni in più di sua madre. Il resto è già storia, con il silenzio dello stadio olimpico di Tokyo ad accogliere una bambina in prima fila che sventola la bandiera siriana. Perché "bisogna sempre lottare per i propri sogni”.
E niente, questa è la nuova ossessione L I B E R A T O
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