Ecco la Zarina di luglio che arriva ad agosto.Â
A dire il vero gli appunti che avevamo messo insieme per scrivere di Asma Elbadawi erano già pronti per essere elaborati ed uscire per tempo, ma poi sono sopravvenute altre cose. La redazione di due racconti a tema sportivo (basket, ovviamente), un pezzo su una Zarina speciale che uscirà da un'altra parte, il lavoro e il desiderio di vacanze hanno portato ad un leggero slittamento dell'uscita di questo numero.Â
Già da qualche tempo avevo il desiderio di approcciarmi alle sportive musulmane. La curiosità è nata durante una delle solite sere che trascorro nella palestra dove faccio kick boxing. Fra le tante ragazze del corso precedente al mio ho notato una nuova combattente, una giovane ragazza che a differenza di tutte le altre dava i pugni al sacco con il capo coperto e i pantaloni e le maniche lunghe e il giorno dopo mi sono trovata a fare una breve ricerca sul catalogo del Staatsbibliothek di Berlino per arrivare poi ad imbattermi in un testo intitolato "Muslim women and Sport" che mi è stato di grande aiuto per lavorare a questo numero di Zarina e ad un pezzo su Ramla Ali, la prima pugile musulmana a vincere un titolo inglese.Â
Chiaramente gli aspetti rubricabili sotto il tema "Donne musulmane e sport" sono numerosi e certamente non basta la lettura di un libro per esaurire la questione, ma nel caso specifico mi sono concentrata sul tema dell'hijab in ambito sportivo e cioè su quali sono le possibilità delle donne musulmane osservanti che sono però anche sportive professioniste o che competono a livello ufficiale. Il quadro che ne è venuto fuori è chiaramente multi-sfaccettato. Ma la storia di Asma Elbadawi testimonia di come un trauma personale o un desiderio di una ragazza che vuole fare sport a livello agonistico possano essere un potente strumento per scardinare tutte quelle usanze che sotto il nome di "tradizione" in realtà non fanno altro che nascondere un ritardo imbarazzante delle federazioni sullo sport che invece si gioca dentro il campo. Â
Sono certa della validità di questa considerazione per lo meno a livello femminile, e fra poco vedrete perché.
Il prossimo numero di Zarina uscirà puntuale, prometto, l'ultima settimana di agosto e sarà il primo di una serie di numeri speciali che abbiamo deciso di chiamare "Zarina in love". Il titolo della rubrica è auto-esplicativo, racconteremo cioè storie d'amore intercorse fra Zarine. Non perché noi si sia particolarmente amanti del gossip, quanto perché ci interessa capire in che modo due sportive di grande fama si approcciano fra loro, e in che modo poi l'amore, il rispetto, il supporto possano andare ad influire sulle rispettive carriere.
Infine vi ricordiamo dell'esistenza del nostro canale Instagram che si chiama Zarina_Newsletter - magari avete voglia di iniziare a seguirci anche lì e di condividerci. Ci saranno le foto delle nostre Zarine e di tanto in tanto qualche messaggio estemporaneo che ci andrà di condividere senza dover aspettare l'ultima settimana del mese che verrà .
Vi abbracciamo e vi ringraziamo per il tempo che ci dedicate.
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INIZIAMO
She ties her shoelaces / fixes her hijab in front of the mirror / walks out proudly onto the basketball court / a warrior in the making / mind versus body
Si allaccia le scarpe/ davanti allo specchio si aggiusta l’hijab sulla fronte/ cammina fiera verso il campo da basket/ una guerriera in fieri/ mente versus corpo
Questa è una delle poesie di spoken poetry che Asma Elbadawi ha composto su due dei temi a lei più cari, due aspetti della sua persona che sono inscindibili: il basket e la religione musulmana. Una dicotomia su cui ha costruito la sua vena artistica e una presenza mediatica che gioca con uno stile sportivo ma glamour che l’ha portata sulla copertina di Vogue Arabia sospesa a cavalcioni su un canestro con un gli occhialoni bianchi. A guardare il suo profilo Instagram non è insolito incappare in foto in cui esegue movimenti da cestista alternati a immagini che la ritraggono in abiti di design e splendidi hijab di seta spesso in toni pastello.
Ricordo la prima volta che vidi Asma Elbadawi e anche il perché non ho potuto fare a meno di tenere premuto il dito sull’immagine e salvarla fra le mie foto schizofreniche del cellulare. Nel post del 20 settembre 2018 Asma è in piedi avvolta in un velo rosso con ricami dorati. Il lungo drappo che la avvolge interamente è poggiato con delicatezza sul capo, ricade giù sino ai piedi e sfiora un paio di scarpe Nike da basket. Sotto il velo indossa una t-shirt rossa dei Chicago Bulls e l’hijab Nike Pro di colore nero. Poco più in là , in primo piano, una palla da basket con la pelle usurata dai campetti ruvidi. Una visione inedita, ma anche un modo di rappresentare una donna musulmana che personalmente non avevo mai visto prima. Â
«Chi è questa modella?» mi sono chiesta; ma poi ho inteso subito che la perfezione con cui la donna nella foto stava imitando una sportiva non poteva essere inscenata, lei stessa doveva esserne una. Sapeva il significato di quella maglia dei Bulls - non era solo un orpello - e sapeva indossarla meglio di molti altri, ma sapeva anche il significato di quel velo rosso e dorato. Ciò che non era chiaro per me era il motivo per cui una donna indossasse entrambi i capi, uno sportivo e l'altro tradizionale, nello stesso momento. Quell'immagine aveva sconvolto tutto ciò che sapevo sull'abbigliamento, sul fatto cioè che ci vestiamo per coprire il nostro corpo ma anche per offrire agli altri una certa rappresentazione di noi.
E infatti subito dopo ho scoperto che Asma Elbadawi solo in prima istanza è una giocatrice di basket di religione musulmana. Lei è anche una poetessa di spoken poetry di successo, una attivista, e che la sua passione sportiva l'ha portata ad allenare (squadre maschili). Nata in Sudan ma cresciuta in Gran Bretagna, da tempo si è impegnata affinché temi come l'identità , i disturbi alimentari e la salute mentale delle donne trovino il dovuto spazio e diffusione anche attraverso media come Instagram. Parlare di lei esclusivamente come una sportiva sarebbe improprio, anche perché in questo caso non stiamo guardando ad una atleta plurimedagliata, quanto ad una donna che ha combattuto per fare in modo che nel mondo potessero esserci ancor più Zarine plurimedagliate di quelle che conosciamo.
Infatti ad essere precisi la carriera cestistica di Alma Elbadawi non è il motivo per cui stiamo parlando di lei. A guardare i numerosi video sul suo profilo Insta si vede subito che la sua tecnica è appena più che buona, e che mancano la classe perfetta e la grazia del tocco delle giocatrici professioniste. Ma il contributo fondamentale che questa giocatrice ha portato al mondo della pallacanestro femminile passa non per i punti fatti in campo quanto per una lotta durata più di due anni che ha portato ad un nuovo regolamento grazie al quale la FIBA (la federazione internazionale di pallacanestro) ha rimosso il divieto di indossare copricapi o hijab in occasione di gare ufficiali. Per dire, prima di lei essere una donna musulmana osservante e essere una giocatrice di basket professionista non erano aspetti conciliabili nella stessa persona.
«Non volevo che si dicesse no alle ragazze più giovani», dice Asma Elbadawi. Il NO in questione è l'opposizione di fronte alla quale tutte le ragazze musulmane osservanti si sono trovate ogni volta che hanno provato a giocare il basket ad un livello ufficiale. Se infatti esiste una regola che vieta loro di indossare un capo senza il quale non desiderano o non possono essere viste in pubblico, allora la conseguenza è brutale: lo sport non può essere giocato. E questa asserzione ci mette di fronte al fatto che le donne musulmane sono piuttosto invisibili nella maggior parte delle attività legate al corpo e allo sport, non perché esse non pratichino attività legate al corpo, quanto perché si fa in modo di non dare loro visibilità . Eliminare un divieto del genere significa allargare il campo di azione e consentire l'accesso al mondo dello sport a un numero incredibilmente alto di ragazze. Â
L'hijab è il simbolo, la condizione senza la quale non è possibile ottemperare alle regole religiose di modestia nella vita della donna. Si tratta di un segno comunicativo sia per chi lo indossa che per l'osservatore. I modi d'interpretazione variano chiaramente di osservatore in osservatore: per alcuni è visto come essenziale per il rispetto della religione, per altri come uno statement politico, per altri ancora come una imposizione repressiva. Nel mondo sportivo al contrario la body culture presuppone che si mostri molto il corpo, che di fatto negli sportivi è uno degli aspetti primari, il loro strumento per eccellenza. E quando c'è poca flessibilità su una questione fondamentale che interessa primariamente una determinata categoria di donne, in questo caso quelle musulmane, molte donne si trovano nella posizione di dover rinunciare alla partecipazione. Una vera e propria rimozione della libertà di scelta.
È la regola che sceglie, non l'atleta.Â
Uno degli escamotage più diffusi fino ad oggi per aggirare il problema è stata l'usanza delle donne musulmane di praticare lo sport in un ambiente chiuso ed esclusivamente femminile all'interno del quale è possibile togliersi l'hijab (che deve essere indossato obbligatoriamente solo in presenza di uomini).
In UK i musulmani sono una minoranza ma i genitori iniziano a ritirare le loro figlie dallo sport quando i criteri islamici di modestia non possono più essere rispettati. Essi consentono la presenza delle ragazze solo in luoghi in cui i canoni di cui sopra sono salvaguardati. Questo sistema ha fatto sì che venisse pubblicata una guida alle scuole in cui si promuove l'integrazione di ragazze musulmane sulla base del rispetto delle regole della modestia e della privatezza del corpo (Muslim Women and Sport 2010, a cura di Tansin Benn).
Ci sono donne islamiche che fanno sport con la testa, le gambe e le braccia coperte, altre che lo fanno in tenuta occidentale, altre che lo fanno esclusivamente in luoghi caratterizzati da presenza femminile. E tutte loro si riconoscono come musulmane. Fin qui tutto bene.
Il problema però si verifica quando la decisione finale sul dove e il come e il perché esula dal volere dei genitori, da quello delle ragazze stesse, o da quello delle palestre femminili.
E per questo era ancora più importante che qualcuno prima o dopo si mettesse a far ragionare anche le federazioni.
La campagna di richiesta alla FIBA è partita nel 2016 quando Indira Kaljo, una giocatrice professionista americana di origine bosniaca, ha contattato Esma dopo averla vista in una intervista. Indira le aveva raccontato che non appena aveva iniziato a indossare l’hijab nelle gare ufficiali era stata costretta a smettere di competere.
«Indira mi disse che c’era una partita in Turchia e mi chiese se volevo andare a giocare», racconta Asma, «Ci siamo organizzate nel giro di due mesi e alcune mie compagne di squadra si sono unite a noi. Abbiamo fatto una partita con due squadre, hijab contro non-hijab, che è andata live in TV per portare attenzione sul fatto che le donne con l’hijab non potevano competere in gare ufficiali».
Indira sceglie di accedere ad un campo di cui non conosce le regole senza di fatto aver poi una alternativa reale se non quella di portare attenzione su un suo problema personalissimo che in realtà però interessa una comunità intera di donne osservanti che desiderano accedere alle gare ufficiali pur rispettando i dettami della modestia.
«Avevo due opportunità », racconta Indira, «Ritirarmi o combattere per i miei diritti. Ho scelto la seconda».
E così insieme alla partita viene lanciato un hashtag #FIBAAllowHijab per diffondere la sua missione: permettere cioè alle giocatrici musulmane di potersi presentare in campo secondo il desiderio di rappresentazione di sé stesse a loro più congeniale. Il passo successivo segue a breve con la redazione di una petizione online su Change.org che nel giro di poco tempo raggiunge 70000 mila firme. Un numero destinato a crescere nel giro di due anni, fino ad arrivare alle 130000 firme necessarie per sottoporre la richiesta alla FIBA.
Se si considera per un attimo che essere un uomo musulmano osservante non va ad inficiare in nessun modo sulla performance sportiva in campo, né sulla divisa da indossare - perché nessuna regola della FIBA vieta che gli uomini indossino pantaloncini lunghi fino al ginocchio così da coprire la awrah (quella parte del corpo che secondo il Corano non deve mai essere mostrata e che per gli uomini va dall’ombelico al ginocchio), viene spontaneo pensare che le leghe sportive, pur pensando di essere eque nel trattamento degli atleti uomini e delle atlete donne, in realtà molte volte credono teneramente di essere nel giusto perché i problemi non li vedono nemmeno.
Ma allo stesso tempo credo che lo sport sia uno dei campi sincretici in cui si può lavorare per abbassare muri che non ci permettono di vedere al di là di ciò che conosciamo o non ci è familiare. E infatti, nonostante il ritardo siderale mostrato dallo sport istituzionale su quello giocato nel campo, il cambiamento invocato a gran voce da almeno 130000 persone alla fine avviene.Â
Il 4 maggio del 2017 la FIBA risponde così: «La nuova regola è il risultato del fatto che l’abbigliamento tradizionale in alcuni stati era incompatibile con le precedenti regole di equipaggiamento della FIBA».
La federazione accetta che il capo venga coperto a patto che si rispettino le seguenti regole:
1. che il copricapo sia bianco o nero o del colore ufficiale della divisa
2. che sia di un colore unico per tutti i membri di una stessa squadra
3. che non copra interamente o parzialmente gli occhi, il naso, le labbra
4. che non sia pericoloso indossarlo, né per le giocatrici stesse né per le loro avversarie
5. che non ci siano elementi di apertura intorno al viso e/o al collo
La nuova regola è epocale e non solo permette alle donne di scendere in campo ufficiale con l'hijab; essa cambia il modo in cui una intera comunità di atlete si approccia allo sport. Non solo perché da quel momento potranno finalmente portare dentro il campo ciò che sono tutti i giorni fuori da esso, e questo non è di certo un aspetto collaterale per una sportiva che non riesce né sente il bisogno di discernere chi è dentro un campo e chi è fuori perché la differenza in realtà non sussiste in primo luogo, ma anche perché quello che Asma Elbadawi e Indira Kaljo hanno fatto è stato creare un modello di donna sportiva che prima non esisteva.
«Quando ero piccola non vedevo ragazze come me in televisione», dice ancora Asma, «e ciò significa che nei prossimi anni vedremo dentro ad un campo ancora più donne musulmane che hanno un aspetto simile alle ragazze che siedono davanti alle televisioni».
Da piccola Asma abitava in Yorkshire ed era solita giocare con le sue amiche provenienti da contesti simili, ragazze musulmane per cui era ovvio e naturale indossare l’hijab durante i giochi. «Adesso quando ci penso credo di aver dato per scontato che non avendo mai visto in TV ragazze fare sport con l’hijab, doveva esserci qualcosa nella nostra religione che lo vietava. Credo di aver dato per scontato che le donne dovessero rispettare la modestia di costumi e che fare sport andava contro questo precetto».
Il corollario immediato di questa conquista è quindi la creazione di un modello di donna velata che acquista visibilità e credibilità politica. Uno degli aspetti più ripetuti e sottolineati da Asma Elbadawi, ma anche da altre atlete musulmane come per esempio Ibtihaj Muhammad, la prima schermitrice musulmana ad aver partecipato alle Olimpiadi, è il senso di confusione costante che provavano da bambine per non aver avuto davanti ai propri occhi qualcuno che somigliasse a loro, una donna che brandisse un fioretto o facesse a spallate sotto canestro con le stesse caratteristiche e lo stesso abbigliamento che avevano loro.
Dovremmo rammaricarci per tutte le sportive fortissime che ci siamo fatti sfuggire in tutti questi anni.
Dovremmo anche rammaricarci per il fatto che solo da pochi anni a questa parte le ragazze hanno modelli pubblici nei campi sportivi, nelle passerelle, sui giornali. Le vittime di questa ignoranza sono incomputabili.
Uno dei ricordi più nitidi che mi porto dagli anni Novanta sono i bambini maschi con cui giocavo nel campo del minibasket, una fase sportiva in cui le bambine condividono lo sport e il campo con i bambini. Fra loro c’era un certo Andrea, un ragazzino altissimo e dal corpo esplosivo, che eseguiva il terzo tempo con la lingua che faceva capolino fra i denti. E non gli importava che non potesse neanche lontanamente schiacciare, non gli importava nemmeno di essere in un certo senso un po’ ridicolo. A lui importava fare il gesto para-atletico di Michael Jordan. Gli importava perché era ciò che vedeva tutte le notti in televisione, e su ogni copertina di basket che sbirciava sul retro delle edicole, quelle mensole trasparenti e polverose in cui venivano esposti i titoli meno venduti e che noi si andava a venerare come se fossero i muri di un museo in cui vengono esposti i Maestri.
Ricordo che i maschi arrivavano sempre con le canotte dei Bulls o degli Hornets appena stirate dalle mamme, oppure con le Scottie Pippen ai piedi, le lettere AIR belle grosse ancora intonse perché magari le avevano appena tirate fuori dalla scatola di cartone, mentre noi bambine non avevamo una canotta con un cognome da femmina, né avevamo un gesto o una acconciatura che potesse anche lontanamente rimandarci a una giocatrice che avremmo voluto essere. Noi si stava lì ad aspettare un passaggio, e se alcune di noi avevano il desiderio di scoprire cosa accadeva nel basket femminile non avevano altro a disposizione che quelle quattro pagine di Superbasket scritte senza cura e con un apparato fotografico un po’ retrò. Non c’erano i profili belli delle stelle della WNBA e quindi ci toccava inventarci un’estetica, ammesso che avessimo il desiderio di averne una. A memoria dico di no.
Però ci restava la scelta di portare il nome di Hakeem Olajuwon sulla schiena, un maschio di colore che giocava in un altro mondo. E chissà perché questa scelta non la facevamo mai. Magari istintivamente sapevamo già che non c’era motivo per farlo, non avevamo motivo per voler essere simili a qualcosa d’altro rispetto a noi.
E invece Asma Elbadawi ha creato un’apertura. Ha creato un precedente e un modello per tutte le ragazze che adesso vedono in televisione una futura loro e che sentono che quel passo dal divano alla televisione non è poi così infattibile - tutto ciò di cui si devono preoccupare sarà allenarsi ancora più duramente, con il vantaggio di avere davanti ai loro occhi qualcuno in carne ed ossa e non un’idea nemmeno troppo chiara di quale materia è fatta una campionessa. Â
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