High Five! Sei su Zarina.
Mi presento. Io sono Giorgia e ti mando questa newsletter sullo sport femminile una volta al mese, l’ultimo sabato del mese.
Zarina racconta le storie di ragazze affascinanti in tuta da ginnastica, ogni donna che ha una storia legata al mondo dello sport, non importa se come atleta in senso stretto o come persona che ha fatto dell’attività sportiva un capitolo importante della propria vita.
In genere nelle quattro settimane che intercorrono fra un numero e l’altro accadono molte cose nella mia vita, e questo non è un aspetto ininfluente sull’animo di quello che leggerai qui. Ho diverse chat private in cui scambio idee e articoli e sensazioni con altre donne e altri uomini che come me trascorrono la gran parte del loro tempo a leggere e riflettere sullo sport e sulla letteratura. Quando qualcosa ci tocca e ci interessa da vicino ci scambiamo messaggi o ci chiamiamo per parlarne. Non siamo sempre della stessa idea, ma è da questo dialogo che fioriscono ispirazioni che ci portiamo dietro poi in tutto quello che scriviamo.
Quando ho mandato l’audio ad Elena Marinelli da cui è nato questo numero di Zarina ero in magazzino e stavo scartabellando quadri impacchettati nel pluriball. Avevo appena letto l’intervista che Elena aveva fatto ad Elena Linari ed ero rimasta colpita da questa risposta della calciatrice:
Il percorso non è stato facile, ma quelle partite (le partite del Mondiale in Francia nel 2019, nda) hanno dato un senso ai sacrifici: noi siamo state le persone che hanno messo in atto i sacrifici fatti da altre prima di noi, che facevano due lavori e prendevano solo un rimborso spese per giocare in Serie A, che hanno messo dedizione per il movimento.
Questa frase mi aveva distratto dai quadri che stavo mettendo in ordine, e aveva cominciato a risuonarmi in testa per la sua modestia e anche perché nel suo nucleo era molto simile ad una risposta che mi aveva dato a sua volta, qualche mese prima, Sara Gama, la capitana della Nazionale di calcio. Quando le avevo chiesto di fare una previsione sul futuro della Nazionale e sulle prossime leve, Gama mi aveva risposto così:
Dal punto di vista tecnico (le nuove leve, nda) partono da una base estremamente migliore e quindi devono fare di più, perché se hai di più devi fare di più. Questo va da sé. E questo vale anche per noi adesso. Qualcuno ci definisce le pioniere, ma le vere pioniere sono quelle che sono venute ancora prima di noi. Io preferisco dire che noi siamo la generazione della svolta, siamo le giocatrici che hanno permesso al grande pubblico di conoscere il calcio femminile. Le pioniere appunto sono arrivate prima e hanno fatto la loro parte e noi siamo partite da una posizione privilegiata rispetto a loro. E meno male che è così, perché altrimenti non ci sarebbe il progresso. Però questo comporta anche delle responsabilità: chi arriva dopo deve lavorare per far continuare a evolvere il movimento.
Quindi mi sono chiesta: chi sono queste pioniere? Chi sono queste donne che sono venute prima di noi? E ancora, per quale motivo due calciatrici sentono il dovere di porgere rispetto e celebrare la memoria di quelle che sono venute prima? È un sentimento che ha a che fare con le madri? Queste madri che non ci lasciano mai, nemmeno quando siamo noi ad esserci conquistate il diritto di essere madri putative a nostra volta.
Elena Linari e Sara Gama ci riportano con la mente ad altre calciatrici che prima di loro non godevano degli stessi diritti, ma erano atlete di serie A nei ritagli di tempo. E scendere in campo con questa consapevolezza riveste il gesto atletico di un significato che non si può contare come i punti in classifica.
Infatti questo passaggio di testimone, di eredità non avviene esclusivamente dentro il campo. Avviene anche e soprattutto dentro gli spogliatoi, avviene ai bordi del campo, avviene nelle camere d’albergo quando si è stanche e si deve riposare il corpo prima di una partita importante. È in quei momenti che le atlete senior si spogliano del loro agonismo e diventano donne più esperte, più grandi, che con la loro semplice presenza stanno affermando che stare lì, con quella maglia e quel numero indosso, è un lusso che in un certo senso è passato anche dal loro sudore e da avversità che adesso appartengono ad un momento lontano. Al prima. Prima di quei Mondiali del 2019. Prima della stagione calcistica 2020/2021.
Prima di tutto, quindi, l’eredità passa per l’incontro. È un testimone invisibile che si cede di mano in mano; un oggetto metafisico di cui ogni atleta che ha raggiunto qualcosa conosce il peso e la materia.
Quello che ha fatto oggi Elena Marinelli con il suo pezzo sulla legacy sportiva è cercare di dare un aspetto visibile ad una qualità che le atlete donne sembrano condividere – la consapevolezza che prima di loro ci deve essere stata qualcuna a cui è necessario pagare un tributo. Una qualità questa che è innegabilmente più simile ad un sentimento che ad una caratteristica che si può allenare con tempo e dedizione.
“Chi arriva dopo deve lavorare per far continuare a evolvere il movimento”. Ed è per questo che partiamo con Zarina. Adesso.
La Zarina di Giugno
[lɛgəsi], si legge Légasi
«Tutto svanisce, ma non i desideri che abbiamo avuto.»
(da È finito il nostro Carnevale, di Fabio Stassi, minimum fax, 2012)
Norman Brookes e Daphne Akhurst sono stati due tennisti australiani. Nessuno li ricorda spesso, quando si guarda indietro: l’arena principale del Melbourne Stadium è intitolata a Rod Laver, il più grande tennista australiano di tutti i tempi, l’arena secondaria è intitolata a Margaret Court Smith, la più titolata, e nessuno nomina mai Norman Brookes e Daphne Akhurst.
Il motivo principale è che la memoria del tennis fa molta fatica ad affondare nell’era pre Open, quella antecedente al 1968, periodo avaro di documenti accessibili, fotografie in bianco e nero, durante il quale le testimonianze preziosissime e rare raccontano di un mondo fatto di aviatori, avvocati, ragionieri che giocavano a tennis e signorine perbene in gonnellone lunghe, cappellini con la falda stretta e calzettoni lunghi.
Norman Brookes e Daphne Akhurst hanno giocato a inizio Novecento: Brookes è stato il primo mancino a raggiungere la vetta mondiale nel 1907, uno di quelli che arrivava sul campo in giacca e cravatta, con il cappello in una mano e una signora infiocchettata e dallo sguardo spesso smarrito al braccio. Ha vinto un Australian Open nel 1911 e due Wimbledon, nel 1907 e nel 1914. Akhurst ha vinto solo 5 Slam casalinghi, nella seconda metà degli anni Venti, perché faceva fatica ad andare in giro per il mondo a giocare a tennis – era pur sempre una donna – raggiungendo al massimo la terza posizione mondiale.
La ragione per cui li nominiamo, una volta all’anno, è che i trofei del singolare dell’Australian Open sono a loro dedicati: è la loro eredità sportiva.
Parole, parole, parole
Ci siamo abituati a dire legacy nello sport, perché come spesso accade in inglese una parola sinteticamente esprime anche un sistema di significati intesi: in italiano diciamo eredità sportiva, se vogliamo essere precisi, perché da solo il sostantivo fa immaginare soldi, famiglie divise e una buona premessa per un romanzo. In tedesco si dice Nachlass, ciò che si lascia dopo: il tempo è tutto; in spagnolo e in francese bastano legado e héritage; in greco si dice κληροδότημα, parola etimologicamente correlata a lascito: ecco che in italiano subito ci si impolvera.
Letteralmente parlando, c’è una fortuna di cui prendere possesso, attraverso una oggetto materiale che passa di mano in mano, per diritto di riscatto. Non a caso i trofei degli Slam di tennis, per esempio, vengono passati di mano in mano, ogni anno, alzati al cielo e baciati, ma ogni vincitore e ogni vincitrice portano via una copia, che fino a qualche anno fa era solo una miniatura dell’originale. È un modo come un altro per ricordare all’atleta di turno che è solo una piccola parte di un universo fuori dalla sua portata e solo per un giorno la particella più brillante. La riproduzione è l’unica certezza fisica di essere parte della storia, assieme al nome e cognome inciso nell’albo d’oro, e il momento in cui il trofeo è ostentato è il più prossimo al raggiungimento dell’idea di eredità sportiva.
Sportivamente parlando, c’è un prima e un dopo e un mondo, trasformato, che si sveglia e aggiorna le regole con cui ci ingaggia, e composto di corpi, strumenti e un pretenzioso terzo incomodo.
Corpi
Quando si entra alla Bombonera, El Diez vuol dire una cosa sola. Ha un posto, El Diez, un box in tribuna che il 26 novembre 2020 brillò nel vuoto dello stadio buio, senza calcio, senza pubblico, nella notte che in tempo di pandemia è stata uguale al giorno: la luce si è accesa per la prima volta senza Diego Armando Maradona. Tra tutti i tributi che il calcio gli ha fatto nei giorni immediatamente successivi alla sua morte, ho pensato che quello della Bombonera fosse stato eccezionale perché come prima intenzione celebra l’assenza – non le gesta – con la luce, un tocco sublime: un seggio per sempre vacante, una dedica alla mancanza, più che un ricordo della presenza.
Ne Il corpo, il rito, il mito (Einaudi, 2021), Bruno Barba traccia i confini dell’antropologia dello sport, che, l’autore ammette presto, non sono esaustivi, anzi: sono una lettura sempre parziale e relativamente critica. La sua si fonda su due elementi: il concetto di «fatto sociale totale», perché lo sport influenza fatti di natura analoga che formano altri aspetti della società e quello di «densità», per cui un evento sportivo non è mai solo questo, quindi va letto in profondità e tra le righe.
Un segno come quello della Bombonera in onore di Maradona esplicita questo concetto di densità, relativo ai corpi che scompaiono, e vale lo stesso anche quando l’atleta si ritira per scelta. Assume, inoltre, un’importanza centrale nella costruzione dell’eredità sportiva, perché si esplicita in modo tridimensionale, attraverso un elemento materiale – una sedia vuota –, ma si potrebbe dire anche per un’anta dello spogliatoio regalata o una maglia ritirata. Sono cose che appartengono alla sfera fisica, stanno nello spazio.
Ogni volta che si tiene a memoria il corpo di un atleta, soprattutto quando smette di funzionare, il campo diventa inconsolabile: le gesta rincorrono lo sport nella sua essenza, sul campo da gioco, e al momento opportuno, nel futuro, si ricomporranno di una fisicità superiore.
O forse no.
Si sceglie un movimento che diventa iconico, tutti impariamo a memoria le mosse, per riproporle alla bisogna, spesso solo per rammentarle, e aspettiamo che qualcuno in carne e ossa le faccia rivivere: la punizione di Diego Armando Maradona come un canestro di Kobe Bryant come il gol al Mondiale 1982 di Paolo Rossi. Il movimento si cristallizza e il corpo spento diventa un mausoleo che ripeterà all’infinito il gesto esemplare.
Chi raccoglie un’eredità sportiva carica dentro di sé questo nucleo, lo mette a frutto dandogli una veste nuova.
Anche quando la scomparsa non c’entra con la morte, ma solo con l’inizio di un’altra vita, magari lontano, si tratta sempre della cessazione da parte del corpo di fare ciò per cui è stato conosciuto: è, però, più nostalgica che definitiva, più dolente che triste. L’usanza di ritirare i numeri delle maglie di certi atleti serve per evitare che qualcun altro occupi distrattamente un posto che non gli riguarda, affinché nella serie progressiva all’improvviso la sequenza si spezzi, il tempo si interrompa e faccia una pausa, che è sempre silenzio quando la sinfonia comanda.
Strumenti
Di recente mi è capitato di parlare con due calciatrici di Serie A, Elena Linari e Sofia Cantore, molto diverse fra loro non solo per momento della carriera in cui sono e ruolo, una difensora e un’attaccante, ma anche per età ed esperienze. Sono in due squadre diverse – la Roma femminile e la Florentia San Gimignano – unite però dalla Nazionale: nell’ultima partita amichevole contro l’Austria dello scorso 10 giugno hanno giocato entrambe per tutta la durata della partita. Probabilmente si conoscono e si parlano, questo non lo so, ma sono accomunate da un’idea di legacy simile: entrambe credono che questa sia un insieme di valori, sacrifici e strumenti che fino a qualche anno fa, di sicuro fino a prima del Mondiale del 2019, le calciatrici invisibili, quelle che una legacy avrebbero fatto fatica anche a pensarla, figurarsi a riconoscerla, hanno lasciato: traspare viva e forte una sorta di riconoscenza, di impegno come minimo comune denominatore, e se oggi dovessimo raccontare cosa significa essere una calciatrice, non solo in Italia, dovremmo necessariamente parlare di legacy come strumento per progredire, per ingaggiare le battaglie, vincerle, e andare avanti per lottare per la successiva: esserci domenica dopo domenica, torneo dopo torneo, esserci senza rinunciare a raccontare la propria presenza, per mostrarla sul campo e dovunque è possibile, è lo strumento migliore per riuscirci.
In modo simile, Ada Hegerberg, attaccante classe 1995 del Lione e della Nazionale norvegese, la prima ad aver vinto il Pallone d’Oro nel 2018 e da più parti definita la migliore calciatrice del mondo, nel documentario del 2020 a lei dedicato, My name is Ada Hegerberg, racconta la sua carriera e l’evoluzione del calcio femminile in Europa negli ultimi anni.
[My name is Ada Hegerberg è diretto da Jackie Decker e Tim Mullen, ESPN+]
All’inizio, una delle parti che mi colpisce riguarda i suoi scarpini, inquadrati due volte a distanza di pochi minuti: nella prima la macchina da presa indugia sull’etichetta del suo cognome attaccata su un lato, corredato dalla bandiera della Norvegia, nella seconda inquadra in primo piano il paio e la scritta che recita: «Continue Writing History».
Sono scarpini speciali, mostrati all’interno di una carrellata di cose esibite come trofei – ad esempio la prima pagina di France Football in occasione dell’assegnazione del Pallone D’Oro e le medaglie delle Champions League vinte con il Lione – e che il suo sponsor tecnico prepara proprio dopo la vittoria del Pallone d’Oro, ma il gold and black inconfondibile è una ripetizione, in verità.
I primi scarpini celebrativi sono indossati dalla calciatrice in occasione della gara Montpellier – Olympique Lyonnais valida per il campionato di Division 1 Féminine, appena dopo la cerimonia del Pallone D’Oro.
È il 16 dicembre 2018, Hegerberg segna il gol del 4 – 0 al 62’, un colpo di testa in tuffo sul secondo palo e il messaggio «Believe in Yourself», stampato in nero sull’oro, non si vede, perché i piedi corrono nel fango e il miscuglio della platea luccicante e imbellettata fa a cazzotti con la realtà, riportando il messaggio stesso alle basi: nel discorso di ringraziamento, Ada Hegerberg aveva detto: «Tutto questo è una grande motivazione a continuare a lavorare duramente. E continueremo a lavorare duramente per vincere sempre più titoli. Vorrei quindi concludere con qualche parola per le giovani ragazze di tutto il mondo: credete in voi stesse.»
Ogni passo è la traccia per qualcuna dopo, ogni volta più leggibile, e questo intendimento è la sua eredità.
Il terzo incomodo
La forma spettacolo e quindi anche quella dello sport non esiste senza gli spettatori. E quando diciamo legacy stiamo implicitamente mettendoci in mezzo, senza proporci con il corpo o con gli strumenti, ma solo con il pensiero che ci siamo confezionati a nostra misura.
Lo scorso ottobre leggo che nella stagione 2021, Mick Schumacher avrebbe corso per la prima volta in Formula 1, esordendo a 22 anni come suo padre che per i tifosi e gli appassionati abita in un limbo della memoria dove si trovano i campioni che non si possono lasciare andare senza una ragione indiscutibile. Il purgatorio è un posto buio e brutalmente ottimista: vorremmo, in fondo, che qualcuno ci dicesse che possa accadere una sorta di miracolo.
Intanto c’è Mick, che ha le stesse iniziali, che da dentro l’abitacolo, anche quando si toglie il casco, se siamo bravi e dipingiamo lo schermo del televisore di rosso, possiamo testare sulle esperienze custodite nel nostro comune sentire: è bravo abbastanza? Va forte abbastanza? Ha ereditato il talento? Deve averlo ereditato, con quei lineamenti calcati in modo preciso, altrimenti ogni sforzo di attesa è nullo. Gli facciamo la tara, gli chiediamo com’è essere in quella posizione, non rispettiamo nemmeno il suo dolore, se c’è, perché il nostro si sta assopendo: le iniziali che guardiamo fissi sullo schermo sono le stesse, dicevamo.
Qualche giorno fa vedo Serena Williams allenare sua figlia Olympia a imparare il dritto. Il primo pensiero è che stiamo guardando la grande campionessa che insegna a sua figlia come esserle uguale, per assicurarsi un pensiero futuro; pensiamo che l’icona voglia ipotecare quel mondo rinnovato che sorgerà un giorno senza di lei: ne siamo certi. Non ci tocca il pensiero della madre che insegna semplicemente una passione a una figlia.
Noi per primi abbiamo bisogno che Serena Williams si reincarni, perché sappiamo ormai da settimane che il momento in cui non giocherà più si sta avvicinando e l’atleta ci ha già minacciato senza remore che se ne andrà senza dircelo – che affronto! – quindi ben venga Olympia: avremo qualcuna da aspettare.
Che sia esattamente come lei. Che sia una copia. Che non abbia velleità proprie e se proprio dovesse averle, che siano più grandi di quelle che noi stessi possiamo immaginare preconfezionate.
Nel reel del breve allenamento, Serena Williams dice una cosa fondamentale; se attiviamo il volume, e non ci limitiamo a guardare, ci accorgiamo che la madre esordisce con: «You know what granpa told me?» e poi le spiega meccanicamente, porzione di colpo dopo porzione di colpo, come si esegue un dritto, come si va incontro alla pallina: come è nato il gioco, in una sorta di favola delle origini. Olympia imita, sbilanciata e a modo suo, il modo di una bambina di tre anni che guarda i gesti e li ricalca per approssimazione; il commento finale della madre è: «Almost, almost, almost».
Ci sei quasi Olympia, ma per cosa esattamente?
Siamo compiaciuti, divertiti, ma abbiamo un secondo fine e ci mettiamo in mezzo, occupiamo un posto che non è nostro. Vogliamo anche noi un pezzo di legacy, solo per continuare a guardare, ma sbagliamo la direzione: non ci giriamo indietro; pretendiamo, invece, di andare avanti.
Non darci soddisfazione, Olympia: la nostra è solo vanagloria.
Due o tre cose che abbiamo fatto in giro in queste ultime settimane
Il giorno dopo la disfatta dell’Italbasket contro la Svezia il mio Whatsapp e la chat di Insta si sono trasformate in una camera di dolore in cui ci chiedevamo: “come stai? l’hai superata?”. Ci stavamo tenendo la fronte a vicenda. Nessunə si aspettava che saremmo uscite dell’Eurobasket così presto, tantomeno contro la Svezia, una squadra che sulla carta non ci doveva impensierire per nulla. Ma insomma, una squadra funziona quando si gioca di squadra e non quando ci si fissa sul fatto che una deve salvare tutte. Infatti che l’Italbasket giocasse di squadra era il piano iniziale. Me lo aveva raccontato Raffaella Masciadri (team manager delle Azzurre) in questa intervista uscita su Ultimo Uomo ad un paio di giorni dall’esordio contro la Serbia. Anyway, stringiamci a coorte per le ragazze del 3x3 che si giocheranno una medaglia alle Olimpiadi. Vi tengo aggiornatə.
“Cosa mi sono persa?” è una domanda innocua che Tiziana Scalabrin ha fatto in chat ad Elena Marinelli. Stavano parlando del Roland Garros. Quella domanda poi è diventata il titolo di una mini-rubrica sul tennis che Elena tiene con Tiziana sul suo canale instagram. Qualche settimana fa hanno invitato anche me per parlare del ritiro di Naomi Osaka dal Roland Garros. Io che vengo dal mondo del basket ne ho fatta subito una questione di squadra e ho riflettuto sul fatto che il tennis è uno sport molto severo anche e soprattutto perché individuale e se Naomi avesse avuto alle spalle altre ragazze pronte ad assecondare qualsiasi sua dichiarazione o scelta, forse non si sarebbe trovata nella situazione di doversi ritirare dal torneo.
Due o tre cose che abbiamo letto in giro in queste ultime settimane
A. Si è parlato del cambio di direzione attuato da Victoria’s Secret in fatto di marketing. Adesso c’è un collettivo di donne “pioniere”. Fuori Giselle, dentro Megan Rapinoe. L’azienda di lingerie più famosa al mondo ha dichiarato di aver compreso di dover smettere di concentrarsi su ciò che gli uomini vogliono e iniziare a guardare ciò che invece sono le donne a volere. Certo Megan Rapinoe non è esattamente la donna della porta accanto; non avrà le ali e le gambe infinite però è una delle uniche due calciatrici al mondo a detenere un pallone d’oro (per l’altra cfr. supra). Fra una passerella glitterata e uno stadio gremito da sessantamila persone non ci vedo molta differenza: hanno entrambi lo stesso grado di irraggiungibilità. Ne possiamo riparlare. Però se volete un pezzo che vi mette in fila le cose e vi spiega perché VS ha deciso di provare ad arginare la ferita dei negozi retail in chiusura mettendo alla porta le supermodel, vi lascio qui il New York Times.
Intanto però nel pezzo c’è anche Megan Rapinoe che fa Megan Rapinoe:
“Come donna gay rifletto molto su cosa noi pensiamo che sia sexy, e ne abbiamo la capacità di farlo perché io non sono costretta ad indossare la tipica cosa sexy per essere considerata come tale. E non credo nemmeno che la tipica cosa sia percepita come sexy quando si parla della mia partner o delle persone con cui sono uscita”, ha detto Ms. Rapinoe. “Penso che la funzionalità sia la cosa più sexy che possiamo aspirare a raggiungere nella vita. A volte anche cool è sexy ”.
B. Qualche tempo fa ho scoperto “Running creatives”, il profilo Instagram di Aleksandra Szmigiel. La bellezza del corpo che ti fa l’atletica leggera, che ti scava i muscoli e i tendini e li lascia sottopelle in un effetto vedo non vedo, è innegabile. Ma Szimigiel va altre il corpo, e nelle sue foto cattura i sussurri delle atlete che temporeggiano in gang sulla pista rossa, la paura, la fierezza dello sguardo verso la camera quando la vittoria è in mano. Un muss fra i follow.
e questa è una cartolina da Berlino per te
Siamo ai saluti finali ma prima un paio di cose.
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Basia.