È stato un mese intenso per Zarina. Abbiamo avuto i primi feedback, molti messaggi di sostegno soprattutto da allenatori di giovani donne, o da sportive che finalmente hanno trovato un posto in cui si parla delle loro tematiche senza veli, senza paura di mostrare debolezze o contraddizioni nella figura dell’atleta, che ancora troppo spesso nella nostra cultura è visto come un dio. Inarrivabile, inscalfibile, sempre concentrato sulla prossima vittoria.
All’inizio di questa settimana è uscita la nostra prima intervista su SPOP - il podcast sportivo di Radio Onda d’Urto. Abbiamo parlato di basket - molto, ma è il nostro tallone d’Achille -, di alimentazione nello sport, della figura del coach nella carriera di una atleta, e anche di ciclo mestruale. Sono tutti temi che riprendiamo con la Zarina di Giugno che vi accingete a leggere.
La storia di Mary Cain mi ha colpita perché mi ha subito ricordato un’esperienza legata alla mia carriera di giocatrice di pallacanestro. Avevo 16 anni ed ero una delle giovani inserite nella prima squadra per crescere con atlete professioniste. Durante un periodo di prestazioni molto scadenti mi rivolsi all’allenatore della prima squadra. Andai a cercare il suo supporto, o forse semplicemente una parola che potesse tranquillizzarmi sul fatto che qualche partita giocata male non era poi la fine del mondo. Invece la sua risposta si orientò su un altro aspetto: il mio corpo non era adatto alla carriera da cestista; il mio sento troppo grosso, i piedi lenti.
Stiamo parlando di una squadra di serie A, in cui si presume che lo staff attinga al Gotha del basket femminile internazionale, e invece io ho beccato un professionista discutibile.
Il mio desiderio è che la prossima sedicenne che si trovi in questa situazione abbia un esempio a cui fare riferimento per capire subito che l’offesa in corso, o l’abuso, non hanno nulla a che fare con lei, ma con le frustrazioni enormi che molti adulti non sono in grado di giostrare, non importa se fuori o dentro dal campo.
Ma per fortuna le affinità fra la storia di oggi e la mia sono solo alcune, con la differenza che attraverso i media Mary Cain ha smosso mondi. Parlandone al pubblico, ai giornali, in televisione ha permesso a molti altri atleti di sollevare la testa e di raccontare anche la propria esperienza di abuso. Sorpresa: si è scoperto che erano in tanti.
Al contrario, quando io sono entrata in campo dopo quel colloquio, ho percepito chiaramente un allontanamento dalla mia passione. Un completo estraneo era riuscito a strapparmi di mano il sogno per cui avevo lavorato dieci anni, ogni giorno della mia vita.
Per fortuna per Mary non è andata così.
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INIZIAMO
Il sette novembre del 2019 il New York Times diffonde un video - a oggi visualizzato circa 14 milioni di volte - in cui la mezzofondista Mary Cain racconta di come nell’ultimo periodo della sua carriera i giorni trascorsi in pista a preparare le gare fossero diventati un vero e proprio incubo.
Nell’arco cronologico fra il 2013 e il 2015 il suo sogno di diventare l’atleta donna più importante nella storia dello sport è passato dall’essere una realtà papabile in cui nella corsa a lunga distanza Mary ha letteralmente frantumato un record dietro l’altro, ad una serie di brutte corse e infortuni seri che l’hanno costretta ad un ritiro forzato in giovanissima età.
La carriera che fino a quel momento era stata segnata da una vittoria importante dietro l’altra subisce una tremenda battuta d’arresto nel momento in cui la Nike, nella persona di Alberto Salazar, la mette sotto contratto nel prestigioso progetto di atletica chiamato “Nike Oregon Project”. È il 2013 e Mary ha sedici anni. Il sogno si avvera: l’adolescente più promettente dell’atletica mondiale passa dalla pista rossa nel cortile della scuola alla Mecca dei corridori.
«Sono entrata a far parte del progetto perché volevo essere la migliore atleta femminile», dice Mary nell’incipit lapidario del video, «invece sono stata abusata nelle mie emozioni e nel fisico da un sistema messo in piedi da Alberto (Salazar) e spalleggiato dalla Nike».
La ragazza che ci parla guardando la camera fissa emana una certa mestizia, come se uscire dalla pista l’avesse trasformata con rapidità in una donna antica, compassata. Nonostante gli sforzi di trattenere, di mettere le redini alla delusione, durante l’intervista a tratti le trema la voce. I quattro anni intercorsi dall’ultima volta in cui ha pestato la pista in una gara ufficiale non sono ancora abbastanza lontani per parlarne come se si trattasse della carriera promettente di un’altra. Mary racconta la sua storia e intanto ne racconta molte altre, dietro la sua persona si nascondono le ombre di molti atleti e di molte atlete abusati e abusate da Salazar e dalla multinazionale sportiva più famosa del mondo. Di quelle numerose ragazze e di quei ragazzi si sente la eco nella fluidità di una frase che contiene molto nel poco - una frase che scorre e contemporaneamente trattiene la complessità di quello che le è stato imposto per tre anni, di come in certi ambiti dello sport «sei visto come un corpo piuttosto che come una mente».
Il talento di Mary è eccezionale. Ancora giovanissima brucia il record giovanile degli 800 a livello nazionale. In quel momento la sua tecnica è istintiva, pulsante. Come in un ogni giovane atleta ci saranno state certamente sbavature, ma la limpidezza del suo talento non si può nascondere e intorno ai suoi sedici anni Alberto Salazar la nota intuendo di trovarsi di fronte alla ragazza più veloce d’America. Le offre un contratto da professionista, e un posto nel circuito atletico più importante del mondo, il Nike Oregon Project. In un momento in cui un atleta sedicenne nella media sta ancor ponderando se investire più tempo nella carriera sportiva o se andare a fare un giro in motorino con i suoi amici, Mary Cain si allena al fianco degli sportivi più vincenti del globo.
Come spesso accade fra una giovane ragazza con delle velleità forti e un uomo adulto che di giovani così ne ha viste tante e sa come prenderle, fra Mary e Alberto Salazar si instaura un rapporto di mentoraggio, di paternità e di adorazione. Un innesco di sentimenti che prima o dopo può solo esplodere. Inizialmente Mary si nutre dell’attenzione quasi esclusiva che il coach le dà; lui l’ha voluta lì perché è la più talentuosa di tutte, lei invece è lì perché vuole che tutto il mondo sappia quanto è forte. Gli allenamenti sono di altissimo livello, così come gli altri ragazzi presenti in pista ogni giorno insieme a lei. Si creano rapporti simbiotici, si impara non solo dai consigli del coach ma anche da quello che gli altri nella corsia accanto sanno fare meglio di lei. È l’ambiente perfetto - il paradiso dove tutto ruota intorno alla prestazione.
Bastano pochi mesi di questo trattamento da Montagna Incantata per vedere i primi risultati: qualche mese dopo Mary vince uno dei titoli più importanti della sua carriera: il titolo americano indoor dei 1600 metri ad Albuquerque con un tempo di 5:05:68, distanziando la seconda classificata di quasi un secondo. La gara ha le caratteristiche di una prestazione studiata fin nei minimi dettagli che nell’ultimo minuto impazzisce e lascia spazio all’estro geniale di una atleta che nonostante la tecnica non lascia in nessun modo imbrigliare un istinto feroce e fatale. I primi tre minuti sono dedicati al restare al passo. Mary procede con una lentezza cadenzata, restando nel gruppo, ma allo stesso tempo saldamente in prima fila. La ragazza è sempre davanti, non cede un centimetro. Procede con una falcata rilassata, gli occhi sono bassi, lo sguardo è fisso sulla pista rossa. C’è da credere che nella sua testa se ne sta da sola a pensare al respiro mentre sugli spalti il pubblico non la lascia un secondo, aspetta con ansia che accada qualcosa. L’atleta che la affianca in prima linea e che ha la pettorina numero sette è la prima a cercare di prendere distanza. Mary la lascia avanzare di qualche centimetro, ma poi la riaffianca da destra e torna all’equilibrio di poco prima.
È da poco passato il terzo minuto e si va avanti così per qualche metro ancora.
Ma è solo intorno al quarto minuto che la gara prende a decollare. In dirittura d’arrivo le ragazze allungano la falcata, e le braccia pendolano avanti e indietro a sostenere il ritmo che aumenta. I ranghi si aprono, le distanze fra un piede e l’altro si fanno più nette. La numero sette e Mary sono ancora davanti in un testa a testa che è chiaro adesso, decreterà fra loro la vincitrice. Nel giro di due secondi Mary stringe l’avversaria e le sfiora la spalla con la sua, poi la taglia fuori in curva. È prima in posizione. Se ne sta da sola avanti a tutte, e non fissa più per terra, ma alza lo sguardo nella pista deserta davanti a sé. L’ultimo giro è una vittoria annunciata. Mary prende distanza, centimetro dopo centimetro, e tutte le donne dietro di lei non fanno altro che inseguirla fino alla fine.
Taglia il traguardo da sola, quella dopo di lei arriva un secondo in ritardo, e quando Mary alza lo sguardo timidamente verso Salazar, il coach accoglie la vittoria con un pollice alto e le labbra arricciate in segno di soddisfazione. Nella mano destra tiene stretto il suo cronometro personale.
Questa vittoria è il segno per tutti che il connubio perfetto fra atleta e allenatore sembra funzionare. Quello che non trapela fuori dai cancelli dell’Oregon Project è che oltre agli allenamenti, Salazar determina in maniera arbitraria il peso dei suoi atleti tarandolo su percentuali di grasso corporeo e muscoli tipici di un corpo atletico maschile. Per questo motivo Salazar decide (nel campus non erano presenti né psicologi né nutrizionisti specializzati, racconta Mary) che per diventare ancora più competitiva, Mary deve raggiungere il peso di 51 kg, e per aiutarla in questo invita la ragazza a mangiare di meno, ad assumere la pillola anticoncezionale e diversi diuretici, la cui assunzione, per inciso, è vietata.
Alberto Salazar pesa le ragazze con frequenza e in pubblico, davanti a tutto il team e allo staff di preparatori, composto esclusivamente da uomini, per la maggior parte amici di Salazar stesso. Chi non raggiunge il peso desiderato è umiliato pubblicamente, deriso. Vengono fatti commenti sulla grandezza del sedere delle atlete, sulla percentuale di grasso corporeo. Mary continua a dimagrire e a gareggiare con il corpo in subbuglio. La mancanza prolungata del ciclo mestruale, che scompare quasi subito, non consente più al suo organismo di produrre il livello di estrogeni necessario a mantenere le ossa in salute, e così si frattura cinque diversi ossi, uno dietro l’altro.
Alla lunga i risultati sono disastrosi. Mary racconta: «Stavo sulla linea di partenza e avevo già perso la gara ancor prima di iniziare. Non riuscivo a smettere di pensare che l’unica cosa che volevo raggiungere era quel numero sulla bilancia».
Il sistema dell’Oregon Project è ben oliato. All’esterno porta i successi attesi, la pubblicità per la Nike, le medaglie per la nazione, mentre dall’interno tutti sanno cosa sta accadendo a Mary e ad altre ragazze prima di lei. Eppure nessuno dice niente poiché tutti hanno qualcosa da perdere. Il prezzo di quel silenzio è così alto che nessuno ha il coraggio di mettere in pericolo la propria carriera che dopo tanti sacrifici sembra essere arrivata all’apice.
In una intervista che verte sulla salute mentale degli sportivi, Nneka Ogwumike, cestita delle LA Lakers, racconta di come nella vita di un atleta la sua salute mentale vada a occupare sempre una posizione secondaria rispetto alle prestazioni del fisico. Finché i risultati sono di alto livello e lo sportivo performa secondo le aspettative, si dà per scontato che tutto vada bene. Ma in realtà è chiaro che le cose non stanno esattamente così. Uno dei primi comandamenti insegnati agli atleti fin da bambini è che qualsiasi cosa accada fuori dal campo, va lasciata fuori di lì. Quello che apparentemente sembra un consiglio saggio, non fa altro che creare una discrasia enorme fra la prestazione alta codificabile con numeri e medaglie e l’integrità emotiva dell’essere umano che porta a casa questi risultati.
La domanda sottesa a tutte le medaglie di Mary Cain e a quella di tutti gli altri sportivi è: quante volte si può pensare di provare del male prima di crollare in pezzi in maniera definitiva? Non così tante quanto ci si spinge a credere, oppure infinite. La risposta sta davvero in queste due antinomie. In questi giorni leggo spesso le didascalie delle foto sul profilo IG di Federica Pellegrini, che sta ripercorrendo la sua storia atletica attraverso le frasi e le parole dei giornalisti dello sport. Leggo spesso di rinascita, di riscatto, di Federica come l’Araba Fenice che risorge sempre dalle ceneri proprio quando sembrava essere morta. C’è qualcosa in questo modo di guardare a Federica che mi disturba, che mi fa percepire una mancanza di rispetto nei suoi confronti, un giudizio di valore insito nei momenti di bassa che qualsiasi carriera o vita ha e che sono semplicemente fisiologici. Federica vista come un feticcio, Federica che è l’emblema della carriera vincente dello sportivo vincente.
In un contesto come quello sportivo, orientato principalmente sulla prestazione fisica e mentale di un atleta, come si fa a dire: sto male? Come si può mettere di fronte al pubblico il dato di fatto che persino il corpo di un atleta fenomenale è costituito da carne e ossa, e che come qualsiasi meccanismo perfetto si può inceppare, pur venir meno alle aspettative? Il pubblico non è pronto per questo, e non lo sarà mai se non iniziamo a educarlo in questa direzione. Se non mettiamo in chiaro che una battuta d’arresto non corrisponde sempre alla “fine di una carriera”, ma che una battuta d’arresto non è altro che una battuta d’arresto.
La potenza mediatica della Nike sulle piste di atletica, dove controlla i contratti, gli introiti, le pubblicità, il numero di corse, gli sponsor, ha creato un sistema in cui il pubblico intorno al fenomeno di Mary Cain era stato convinto che il grande Alberto Salazar fosse giunto nella vita della ragazza per sostenerla e starle accanto nelle gare che l’avrebbero consacrata come la donna più veloce del mondo. Dagli spalti o in televisione le immagini di Mary continuavano a proporre una ragazza concentrata sullo scopo, sorridente, focalizzata. Ma le cose non stavano ovviamente così. Di quei giorni Mary ricorda una grande paura, e la frustrazione di fronte alla solita risposta ad ogni richiesta di aiuto: «Fa’ quello che ti dice Alberto».
Mary è terrorizzata, e smette di mettere in parole ciò che prova. Inizia ad avere pensieri suicidi e fuori dalla pista, quando nessuno la vede, si provoca tagli sul corpo, su quello stesso corpo che fino a qualche mese prima l’ha portata così in alto.
Nel maggio del 2015 avviene l’ennesima berlina pubblica. Alla fine di una gara in cui Mary corre molto male, Alberto la umilia di fronte a tutti dicendo che ha chiaramente messo su due chili. Quella stessa sera l’atleta, probabilmente ormai inceppata in una spirale strana di sensi di colpa, si rivolge ad Alberto e al suo team e racconta loro di aver iniziato a ferirsi. I colleghi non mostrano nessuna reazione, nessuna pietà, e mandano Mary in camera a dormire senza indagare. Questa è l’ultima curva. Qualche giorno dopo Mary trova il coraggio e racconta tutto ai suoi genitori, abbandona il Nike Oregon Project e torna a casa al sicuro. Alberto Salazar resta nella sua posizione di potere indisturbato per ancora quattro anni, durante i quali continua a mettere in pratica la sua politica di costruzione del corpo perfetto su altri atleti che hanno iniziato a testimoniare dopo il coming out della stessa Mary Cain.
Ma ormai la breccia nel sogno atletico della Nike è stata fatta.
Nel settembre del 2019 emerge finalmente che Alberto Salazar è solito somministrare doping ai suoi atleti, e viene sospeso per quattro anni dal mondo dello sport. La caduta del dio si porta giù tutto l’Olimpo: il Nike Oregon Project viene chiuso. La vittoria viene portata a casa, ma per i motivi sbagliati. La causa della chiusura del progetto è attribuita al doping e non il fatto che alla Nike le ragazze vengono trattate come giovani corpi da sfinire fino all’arrivo della prossima stellina.
Secondo la psicologa sportiva Joan Steidinger (Sisterhood in Sport, 2014) le atlete donne sono sottoposte a un rischio maggiore di sviluppare disordini di tipo alimentare, soprattuto in attività legate alla leggerezza del corpo come ginnastica, pattinaggio artistico, danza, corsa a lunga distanza. Al contrario in atlete il cui corpo richiede una massa muscolare ben sviluppata, i rischi sono certamente minori. I disturbi alimentari in ambito sportivo sono così diffusi da essere entrati a far parte della tassonomia del NEDIC (National Eating Disorder Information Center), che li ha divisi in quattro categorie: anoressia nervosa, anoressia atletica, bulimia nervosa e alimentazione disturbata. L’anoressia atletica lega un’alimentazione estremamente controllata ad un allenamento compulsivo, finalizzato il più delle volte a smaltire le calorie precedentemente assunte. Nel suo studio Steidinger mette in luce come anoressia, bulimia, o la convivenza di entrambi i disturbi siano spesso incoraggiate dai familiari delle atlete o dagli allenatori stessi, soprattutto di sesso maschile, come incentivo a migliorare le proprie performance sul piano atletico.
«Mi chiedo: se avessi avuto più psicologhe donne, nutrizioniste, e anche allenatrici, dove sarei stata oggi?», si domanda Mary, «sono stata messa in un sistema disegnato da e per uomini. Un sistema che distrugge il corpo di ragazze giovani. Piuttosto che costringere le ragazze a proteggersi, dobbiamo fare in modo di proteggerle».
Tuttavia Mary non ha mai nascosto di avere un rapporto di odio e amore con Alberto Salazar. Nonostante gli abusi e le offese pubbliche, nonostante Salazar avesse più volte mostrato di utilizzare un metodo basato sull’umiliazione e la cancellazione dell’ego di Mary Cain, dopo essersi allontanata dal progetto, Mary prende in considerazione persino di tornare a far parte delle fila del suo vecchio allenatore. «Per anni tutto ciò che volevo era avere l’approvazione di Alberto. Io gli voglio ancora bene. Alberto era come un padre per me, persino quasi un dio. Lo scorso autunno avevo detto ad Alberto che volevo ritornare - volevo lavorare con lui, solo con lui - perché quando permettiamo alle persone di distruggerci emotivamente, ricerchiamo la loto approvazione più di tutto». Steidinger - che da anni lavora con sportive donne - racconta di come in genere le ragazze portino avanti una relazione molto stretta e di tipo personale con il proprio allenatore. Gli allenatori hanno un ruolo primario nelle vittorie o nelle sconfitte delle loro atlete, molto di più che nel caso di uno sportivo maschio. «Ero vittima di un sistema abusivo, di un uomo abusivo. Ero costantemente tormentata dal conflitto di volermi liberare da lui, ma anche di voler tornare ai tempi di una volta, in cui ero la sua preferita».
E questo è uno dei messaggi più forti che Mary ci lascia. Lo sport è una attività che viene iniziata in età giovanissima. Gli atleti e le atlete più forti sono costretti il più delle volte a lasciare casa ancora poco più che bambini e bambine. Le famiglie spesso restano lontane, e affidano l’educazione dei loro ragazzi a società le quali sono interessate ai futuri introiti ricavabili dai loro giovani atleti. I ragazzi sono investimenti, hanno costi di cartellino, di mantenimento, di tempo di professionisti impiegato a spiegare loro come compiere il gesto atletico nel migliore dei modi possibili. E questo è un aspetto fondamentale, un aspetto che mettere da parte sarebbe naive. Le società sportive sono appunto “società”, investono capitale monetario e spesso anche affettivo nei loro atleti. Come si può allora fare in modo che le giovani ragazze e i giovani ragazzi siano in qualche modo protetti? Con un enorme sostegno da parte della famiglia in primis, ma anche di un team solido di medici e psicologi. Esattamente come in tutti gli altri mestieri, anche gli atleti necessitano di un ambiente lavorativo salutare, competente. Iniziamo a guardare gli atleti per quello che sono: persone. Iniziamo a osservarli nel loro intero. Le vite degli sportivi non sono romanzi, non ci sono alti e bassi messi dentro la storia con una cadenza precisa per tenere la suspance del pubblico sempre alta.
Nel caso di giovani stelle anche solo una serie di prestazioni negative, o un discorso messo giù male da parte di una persona con una certa autorità nella loro vita può influire sulla direzione della loro carriera. E per favore non tiriamo fuori le questioni darwiniane, quelle del: se non ce l’ha fatta, allora voleva dire che non aveva il carattere.
Un campo sportivo non è Sparta, un atleta giovane o adulto con un momento di impasse non è un corpo inutile da far rotolare giù per la rupe finché non muore.
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