INTRO
Benvenut* a Zarina,
la newsletter sullo sport femminile che ormai da due mesi a questa parte si è felicemente ma temporaneamente trasferita in Italia.
Dopo l’Avvento di Zarina che ci ha accompagnat* per quattro settimane consecutive in Dicembre, eccoci qui tornate ai consueti ritmi dell’anno che prevedono una solo uscita al mese nell’ultimo sabato del mese.
Il numero di oggi però non è avulso dalle storie che vi abbiamo raccontato durante il periodo natalizio, ma anzi ne è una continuazione ed un approfondimento. Enrica Fei l’ho conosciuta a Berlino in un pomeriggio di Ottobre. Mi aveva contattata dopo aver letto un pezzo molto emozionale su mia madre, mi aveva invitata a vederci e dopo qualche giorno ci siamo incontrate al Festival della Letteratura di Berlino in occasione di una conferenza di Èdouard Louis. Da lì ne è nata un’amicizia che ci porta per lo più a parlare di Paesi Arabi, Islam e letteratura.
Quando ho chiesto ad Enrica se avesse voglia di scrivere un testo molto breve su una Zarina a sua scelta, lei mi ha subito parlato di una sua vecchia amica di allenamenti, Tessa Bambi, una marciatrice di Firenze. Il nome non mi suonava nuovo, mi sono ricordata a posteriori che di Tessa, Enrica, mi aveva parlato durante una delle nostre cene in cui spesso parliamo in modo liberatorio della nostra adolescenza. Liberatorio nel senso che non c’è nostalgia per quegli anni, ma una sorta di revisionismo che ci permette di parlarne anche con un certo entusiasmo. E dopo il pezzo breve per il Quarto Avvento abbiamo deciso di scrivere qualcosa di più lungo perché sin da subito la storia di Enrica e Tessa ha mostrato di aver bisogno di più spazio.
Il pezzo su Bambi è un pezzo sui primi anni di vita di due ragazze che fanno le stesse cose – andare a scuola, scendere in pista – ma lo fanno a due velocità diverse e scommettono tutto su cavalli diversi. Enrica poi si prende ironicamente in giro per aver corso anziché marciare in certi giorni, oppure per essere scesa in pista ancora truccata mentre in testa ripassava i versi di Tucidide. Io ritengo questo momento il cuore pulsante del pezzo su Tessa perché ci racconta allo stesso momento le gesta di un’atleta che ce l’ha fatta, ma allo stesso tempo anche quelle di una che non ce l’ha fatta.
E questa narrazione ha il pregio di farmi sentire che per una volta può pure andare bene non essere al vertice, non portare a casa una medaglia ma che ci si può anche dedicare ad un altro aspetto dell’agonismo: quello di raccontarle queste storie.
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Tessa Bambi
di Enrica Fei
La bambina mi aveva fissata per almeno mezz’ora, prima che il padre la rimproverasse con lo sguardo e si portasse l’indice alle labbra. Chissà cosa aveva detto, poverina. Io avevo cercato di non guardarla sino a quel momento: non volevo spaventarla ancora di più. Mi sono voltata verso di lei solo quando è scoppiata a piangere terrorizzata. Il padre non l’ha rassicurata; non lo aveva fatto quando lei gli aveva sussurrato chissà cosa all’orecchio e non lo ha fatto dopo, quando è scoppiata in lacrime. Lacrime non di tristezza, credo, ma di paura. Si è avvicinato mortificato, rosso in volto, mi è parso tremasse. Si è scusato balbettando e, la bambina in collo, ha lasciato la sala d’attesa dell’ambulatorio. Mi sa che aspettava da un sacco di tempo.
Mi sono sempre chiesta se Tessa abbia visto questa scena. Era lì, quindi forse sì, ma eravamo almeno in 50 ad aspettare il nostro turno e lei dice di non ricordarsela. Non mi sembra una donna che menta quindi forse l’ha dimenticata, o no, proprio non l’ha vista, o no, si è messa in coda dopo e io che ricordo lei la colloco negli eventi a caso. Fatto che sta che poco prima, o poco dopo, in quella stanza d’aspetto, sono sicura di aver visto io lei, Tessa. Era un giorno qualunque dell’ottobre, o novembre (o dicembre?) 2011, ed erano almeno 10 anni, se non di più, che non la incontravo. Era identica. Attendeva in piedi, le braccia incrociate, le gambe atletiche leggermente divaricate. Vestiva sportiva come la ricordavo, non portava ammennicoli – anelli, collane, orecchini e gingilli, nemmeno un filo di trucco sul volto pulitissimo e la pelle liscia e compatta. Un accenno di sorriso, lo sguardo allegro e determinato, guardava dinanzi a sé un punto lontano ma preciso: un punto che è proprio lì, da qualche parte laggiù, non importa se gli altri non lo vedono, basta un po’ di sforzo e ci si arriva, magari perfino più velocemente dell’ultima volta. Sì, era rimasta proprio lei: Tessa Bambi, la mia compagna di allenamento di marcia.
Quando ci allenavamo insieme, Tessa lo vedeva sempre, quel punto lontano e preciso che è proprio laggiù: basta un po’ di sforzo e ci si arriva, guardalo è lì, non è impossibile. Io a volte sì, a volte no; quel giorno no, non l’ho visto.
Avrei potuto salutarla, quel giorno, e l’ho quasi fatto: mi sono mossa sulla sedia e l’ho guardata. Se si fosse girata per caso avrebbe incrociato il mio sguardo, si sarebbe chiesta chi fosse quella ragazza che la fissava. Forse si sarebbe domandata cosa era successo, a quella ragazza malmessa, e chissà, forse, le avrebbe sorriso. “Ciao Tessa, sono Enrica, ti ricordi di me”, le avrei detto, “la vita mi ha detto male”, avrei aggiunto, “le cicatrici non si vedranno quando ricrescono i capelli”, avrei continuato, “o forse sì, sulla fronte certo, ma non importa sai, le cicatrici restano, come le ferite, ma si nascondono”. E invece no, non è successo niente di tutto questo.
Quando ci allenavamo insieme, Tessa lo vedeva sempre, quel punto lontano e preciso che è proprio laggiù: basta un po’ di sforzo e ci si arriva, guardalo è lì, non è impossibile. Io a volte sì, a volte no; quel giorno no, non l’ho visto. Mi sono solo raccolta sulla sedia e ho sperato che non mi vedesse.
Sulle piste d’atletica quel puntino non lo vedevo, e non per chissà quali arcani motivi. Semplicemente perché non mi allenavo abbastanza. Lo dico con un sorriso, senza rimorsi, con lo stesso spirito divertito con il quale Tessa mi rimproverava quando ci riscaldavamo prima dell’allenamento. Praticavamo marcia, la disciplina di atletica leggera che rende agonistico il cammino. L’allenatore non poteva vederci – lui restava in campo mentre noi per riscaldarci facevamo il giro dello stadio d’atletica dall’esterno, e mentre lei marciava, io correvo, rendendomi più facile il riscaldamento. Prima d’ora non ci ho mai pensato: io correvo per non marciare, ma lei marciava, senza correre, alla mia stessa velocità. È un po’ come dire che io prendevo il motorino per non pedalare; e lei pedalava alla stessa velocità dell’acceleratore.
“Se non hai testa, creatività, sensibilità puoi avere le più grandi doti fisiche del mondo, ma vai poco lontano”.
Il nostro allenatore era Marco Ugolini, “uno dei più grandi allenatori del mondo della marcia”, scrive il quotidiano fiorentino La Nazione. I toni altisonanti della cronaca locale mi fanno sorridere, ma è vero. Una carriera lunga più di 50 anni, Marco Ugolini ne ha da poco compiuti 82. Continua ad allenare, i marciatori e le marciatrici fiorentine continuano ad essere convocate negli azzurri e in questi giorni strani, in cui i centri sportivi sono chiusi, lui continua a prendere il tempo dei suoi atleti che si allenano sulla strada, non potendo fare altrimenti. Ha allenato le più grandi stelle della marcia italiana collezionando successi e medaglie internazionali: con il “terzetto magico” Antonella Marangoni, Giacomo Poggi e Alessandro Pezzatini, alla Coppa del Mondo dell’ ‘83 e dell’ ‘87; con Elisabetta Perrone, ai Giochi di Atlanta del ’96, i Mondiali di Goteborg del ’95 e quelli di Edmonton del 2001; con Andrea Cosi, Niccolò Coppini, Ettore Grillo e tanti altri. Tra le altre c’era Tessa Bambi, con cui – per un periodo relativamente breve rispetto alla sua carriera – mi sono allenata anch’io.
L’Ugolini è un allenatore speciale. Ci allenava secondo il principio che “Se non hai testa, creatività, sensibilità puoi avere le più grandi doti fisiche del mondo, ma vai poco lontano”. Era così che ci motivava a dare il meglio di noi. Lo chiamavamo tutti “professore” nonostante, a differenza della maggior parte dei suoi colleghi, non era mai stato un insegnante dell’allora ISEF (Istituto Superiore di Educazione Fisica, oggi Scienze Motorie, Sportive e della Salute). Ci allenava ogni giorno in giacca e cravatta, da professionista quale era. Veniva incontro alle difficoltà logistiche delle allieve rendendo lo sport un’attività praticabile per tutti: non solo per gli atleti ma anche per le loro famiglie. Quando le sportive sono giovanissime, l’impegno da parte dei genitori è fondamentale, e non tutti hanno la possibilità di accompagnarle all’allenamento, venirle a riprendere, portarle alle trasferte tutte le domeniche e aspettare che la gara finisca per tornare a casa. Il Professore ci passava a prendere a casa, ci riportava, ci accompagnava alle gare; si assicurava che la nostra attività sportiva fosse una gioia per tutti: per chi le gare le vinceva, per chi poteva fare meglio la prossima volta, e persino per le famiglie, che magari, oltre allo sport dei figli, avevano altre preoccupazioni.
La marcia è una progressione di passi costante; un arto è saldo a terra, teso e non piegato al ginocchio, mentre l’altro avanza a prendere terreno. È un movimento innaturale, fortemente tecnico, da eseguirsi su lunghissime distanze. Il percorso olimpionico è di 50km, la distanza più lunga di qualsiasi specialità dell’atletica. I carichi alla settimana, per gli atleti di alto livello, possono arrivare anche a centinaia di kilometri.
Ho cominciato atletica a otto anni e intorno ai 10 si è scoperto che nella marcia me la cavavo. Non sono affatto coordinata: non ho idea del perché. Dopo aver vinto i campionati provinciali in quinta elementare conoscendo solo le basi della specialità, cominciai ad essere allenata dall’Ugolini. E lì conobbi Tessa, Tessa Bambi.
Tessa ha tre anni più di me, quindi non abbiamo mai gareggiato insieme. Sono quasi certa che non sia stata la differenza d’età a motivare la mia assoluta mancanza di competizione con lei; francamente, non ricordo di essere mai stata competitiva, almeno nello sport. Forse è per questo che, iniziato il liceo classico, tra la quarta e la quinta ginnasio e le versioni di greco e latino ho smesso di allenarmi: ero brava, ma non ero una campionessa. Mi allenavo “con la testa fra le nuvole”, come Tessa mi ha detto di ricordarsi, partecipavo alle gare tutta truccata, saltavo gli allenamenti prima dei compiti in classe e, se il mio tempo a fine gara non era un granché, pace, me ne facevo una ragione. Tessa, ai tempi, era già una campionessa: aveva fatto vari record, regionali e nazionali, e collezionava premi, vinceva sempre. Ai miei occhi era “la forte”: non era “più allenata”, “più determinata”, neanche “più portata”. Era semplicemente “forte”, come se essere forti nello sport fosse un colore di capelli, un aspetto del carattere, il nome che ti hanno dato da piccola e che, non ha importanza se ti piaccia o meno, è il tuo e basta.
Le volevo bene, la trovavo simpatica, ma lei, nella mia percezione, viveva nell’Olimpo: non saremmo mai potute essere davvero amiche. Tessa era più forte, più grande, la campionessa che tutte volevano diventare ma che io, non c’era niente da fare, non ero. Un problema semplice e irrisolvibile che, a differenza delle versioni di greco, del mio aspetto fisico, dei litigi con mia madre, non mi provocava alcun tipo di dolore. Ho solo ricordi felici dell’atletica leggera.
La Tessa che è rimasta nella mia memoria non è solo quella dei campionati nazionali, della Maglia Azzurra; non è solo la Tessa che vinceva sempre e che era forte “perché era forte”, come pensavo io nella mia inconsapevolezza sportiva. La Tessa che ricordo è anche quella che rideva in modo squillante, che mi prendeva in giro perché correvo mentre lei marciava; quella che prendeva la rincorsa e, divaricando le gambe e facendo leva sulle braccia, saltava sopra il motorino. E poi, guidando sul viale, ci salutava da lontano con la mano.
La Tessa che ricordo è la stessa con cui ho parlato qualche giorno fa, dopo vent’anni che non avevo più sue notizie. Avevo dimenticato persino il cognome: ho digitato su Google “Tessa marcia Toscana 2000” e l’ho recuperato tramite un articolo di cronaca sportiva, e così sono riuscita a contattarla.
Dopo avere indossato la Maglia Azzurra nel 2001, Tessa ha ottenuto un contratto con una società sportiva. Si è allenata per un anno con l’infiammazione del nervo sciatico perché, dice lei, “ci sono sportivi che non si fanno mai male; io invece avevo continui infortuni”. Per un anno si è allenata gestendo il dolore nei modi più diversi; poi, finita la stagione, ha deciso di riposarsi. Si è presa un anno sabbatico per riprendersi e poi tornare a marciare. Era ancora giovanissima, aveva solo 24 anni, e aveva tutto il tempo di interrompere temporaneamente la sua brillante carriera e poi ricominciare.
Durante quell’anno, però, ha scoperto “il lato ludico dello sport”, per usare le sue parole. Se andava a correre lo faceva nelle colline intorno a Firenze, per godere della loro bellezza; se prendeva la bicicletta non era per un nuovo record ma per scoprire un nuovo percorso, per perdersi in qualche nuovo bosco. E così a marciare non è più tornata. “Il passaggio non è stato così fluido come te lo sto raccontando”, riconosce lei stessa, “ma alla fine sono stata felicissima così; avevo fatto il mio tempo da campionessa, e ora lo sport lo volevo vivere, non più praticare da agonista”.
Oggi ha 37 anni, vive con il suo compagno e le sue due meravigliose bambine, Matilde e Agata. Anche il suo compagno è ciclista e ogni anno girano il mondo in bicicletta. “Facciamo i cicloturisti”, mi dice lei ridendo – la risata è quella allegra e contagiosa di quando aveva 15 anni. Il primo viaggio con le bimbe lo hanno fatto lungo la ciclo-via del Danubio: la grande aveva 3 anni, la piccola 8 mesi. Ha completato gli studi in agraria e ora lavora nel controllo HACCP e come tutor di orienteering per bambini, la pratica sportiva di attraversamento di una certa area (il più delle volte nella natura) in qualsiasi modo, tramite qualsiasi tragitto, aiutati solo da una cartina topografica.
Tessa non è mai arrivata alle Olimpiadi ma è rimasta una campionessa, una vera sportiva; perché lo sport, come ci ha insegnato il Professore, non è solo quello dell’Olimpo e delle medaglie, del successo agonistico e della fama. Forse dovremmo cambiare il nostro modo di raccontare lo sport e partire dalla storia di Tessa per imparare che lo sport si può praticare, sì, ma anche vivere. Lo sport è anche quello che ora lei insegna ai bambini, tramite l’orienteering:
“Mi sono perso, dico sempre ai miei bambini, non vuol dire niente. Non ti sei perso: non sai dove sei”.
Se lo avessi saputo, l’avrei salutata, quel giorno di dieci anni fa in cui l’ho vista per caso, nella sala d’attesa di quell’ambulatorio. Ma non importa. Come ci ha insegnato il Professore, si farà meglio la prossima volta.
Enrica Fei è arabista e sta concludendo un dottorato in politiche del Medio Oriente. È redattrice per Il Mondo o Niente e Yanez e co-fondatrice di Teatro Immersivo Firenze, di cui è autrice teatrale. Ha pubblicato su In Fuga dalla Bocciofila, Birò, Magò, Dialoghi Mediterranei, Fair Observer. Ha un sito dove raccoglie quello che scrive: enricafei.it
Due o tre cose che abbiamo fatto in giro in queste ultime settimane
Quando Gregg Popovich si è fatto cacciare dalla panchina dei S. Antonio Spurs è arrivato il momento per cui Becky Hammon si era preparata giusto sei anni. Su Ultimo Uomo ho raccontato chi è Hammon e quanti anni ha giocato ai massimi livelli in WNBA, in Russia ed Europa prima di arrivare a guidare in campionato una delle franchigie più prestigiose della NBA.
Il quindici gennaio me ne stavo tornando tranquillamente a Berlino quando ho dovuto abbandonare l’aereo per un problemuccio con il tampone molecolare che avevo fatto il giorno prima. Al temine di quattro ore e mezzo di incertezza è stato poi deciso che io rimanessi per 21 giorni al Corona Hotel di Bologna. Niente paura, ne sono uscita dopo una settimana ma su Rivista Studio ho scritto un po’ di quei giorni tutti uguali in cui ho visto un sacco di FIBA Cup senza telecronaca.
Io ed Elena Marinelli (iscrivetevi alla sua Newsletter sullo sport e sui libri e su un sacco di altre cose) abbiamo ideato 3x2 che è una rubrica in cui io e lei, a turno, vi parliamo di tre cose che hanno a che fare con lo sport femminile: un libro, un podcast, un articolo, una serie, un profilo social – e turno.
La prima puntata la trovate qui
e la seconda la trovate qui:
A breve ne arriveranno altre. Stay Tuned.
E per questa prima puntata del 2021 è tutto. Ah già, vi siete accort* che vi ho portat* tutt* su Substack? Adesso avete a disposizione tutto l’archivio di tutte le Zarine QUI
Passo e chiudo con una canzone che fa sognare e che io ho ascoltato praticamente per tutto il mercoledì, il giovedì, il venerdì e anche oggi mi sa che si andrà avanti: