High Five! Sei su Zarina.
Come al solito mi presento. Io sono Giorgia e ti mando questa newsletter sullo sport femminile una volta al mese, l’ultimo sabato del mese.
Zarina racconta le storie di ragazze affascinanti in tuta da ginnastica, ogni donna che ha una storia legata al mondo dello sport, non importa se come atleta in senso stretto o come persona che ha fatto dell’attività sportiva un capitolo importante della propria vita.
Stasera sono tornata a fare sparring in allenamento. L’ultima volta era stata a febbraio 2020, quando mi allenavo cinque volte alla settimana e mi preparavo al primo combattimento ufficiale di kickboxing. Ufficiale nel senso che mi avevano detto che dovevo scendere ad un certo peso (e quindi mi pesavano a fine di ogni allenamento) e mi avevano iscritto ad una gara dopo avermi fatto una foto che era girata sul profilo instagram della palestra in cui mi alleno. Mercoledì sera una delle allieve del corso “per ragazze” mi ha fermata in spogliatoio e mi ha chiesto quando combatterò di nuovo perché tutte le altre del corso si erano messe d’accordo per venirmi a vedere, per fare il tifo per me visto che sono l’unica femmina che combatte. Mi ha strappato l’unico sorriso di una giornata infernale.
Dentro una palestra di arti marziali lo sparring ha un significato particolare, soprattutto quando si è l’unica ragazza di un gruppo composto da soli uomini. Lo sparring infatti nel mio caso non è la parte scontata e più dinamica di un allenamento altrimenti fatto di molta tecnica e moltissimo sudore; lo sparring, e cioè il diritto di combattere fisicamente è una conquista che è passata da molte sere in cui me ne stavo immobile al lato della pedana con le braccia e le mani avviluppate nei guantoni abbandonate lungo il corpo ad aspettare che qualcuno mi chiedesse di fare a pugni per tre minuti.
Non è difficile immaginarsi che sono state molte le serate in cui facevo pause forzate più frequenti degli altri oppure mi toccava combattere con quelli scarsi o quelli nuovi, gli appena arrivati. Per dire, l’ultimo appena arrivato che mi ricordo è comparso una sola volta durante l’allenamento di sparring, mi ha dato un pugno completamente a caso sull’orecchio e mi ha rotto il timpano. Non ci ho sentito dall’orecchio destro per tre settimane ma sono comunque tornata, ogni volta, ogni mercoledì, ad aspettare che qualcuno mi chiedesse di combattere.
Mi dimentico troppo spesso del timpano rotto e del fatto che adesso in palestra sanno il mio nome e che il mio allenatore è passato dal dire «ragazzi ora facciamo questo» a «ragazzi e ragazze, ora facciamo questo». Ci deve essere stato un momento in cui ho iniziato ad esistere lì dentro, e non escludo che sia stata proprio la sera in cui il tizio mi ha rotto il timpano perché in quel preciso istante i ragazzi si sono metaforicamente uniti intorno a me in una specie di dinamica di protezione di un gruppo – il nostro – di fronte ad uno che poi non sarebbe mai più tornato.
Il ring mi ha insegnato che la divisione netta fra maschi e femmine nello sport è una barriera che in qualche modo si può scavalcare. C’è un modo per ovviare alla fregatura di essere considerata una donna dentro un campo e mi pare proprio che la chiave è semplice: esserci, esserci tutti i giorni, combattere come gli altri, non pensare a se stessa come una femmina nel senso proibitivo del termine ma trarre forza dal fatto che migliorarsi ed essere capaci di competere, nel mondo dello sport è l’unico modo possibile per essere rispettat*.
Questo numero di Zarina ce lo hanno scritto Olga Campofreda e Alessandro Lanni. Olga è stata una schermitrice a livello agonistico e oggi è maestra di scherma a Londra, dove vive. In Da zero a Tokyo: due o tre cose sulla scherma femminile ci racconta proprio di come le donne della scherma si siano liberate dalla pressione mentale di dover combattere come gli uomini per essere considerate delle schermitrici di successo. Anzi, sembrerebbe proprio il contrario e cioè che dovrebbero essere gli uomini ad aspirare a combattere e a vincere come hanno fatto certe donne del fioretto italiano.
Alessandro Lanni è anche lui allenatore, ma di baseball e softball e per noi ha intervistato Emily Nemens, autrice di Cactus League, un libro su baseball edito da 66thand2nd. Dal loro dialogo emerge l’anima di uno sport assolutamente americano che ha qualcosa da insegnare a tutt* noi: la pazienza, la gestione della delusione ma soprattutto il perdono.
Ringrazio Olga ed Alessandro per i loro contributi – c’è importante materiale di riflessione per le prossime settimane.
Partiamo che è sabato e voi giustamente ve ne vorrete andare al mare a giocare a racchettoni sulla spiaggia. Questo è il fischio d’inizio.
La Zarina di Agosto
Da zero a Tokyo: due o tre cose sulla scherma femminile
Olga Campofreda
La prima volta che sono salita su una pedana di scherma avevo sei anni, indossavo un body rosa da ballerina e avevo i capelli tirati in uno chignon. Mia mamma era venuta a prendermi alla scuola di danza ed eravamo andate a vedere mio padre allenarsi nella sala d’armi.
Ogni volta che ci sono le Olimpiadi e la scherma viene passata in televisione penso a questo episodio e mi domando chissà quante altre bambine lasceranno un tutù o un body per imbracciare una spada. Questo solo pensiero mi rende felice.
Al di là delle divisioni per categorie e degli anni di nascita nelle competizioni ufficiali, la palestra di scherma è un ambiente che incoraggia a misurare se stesse con atleti ed atlete di tutti i generi, di tutte le età e di qualsiasi forma fisica. Quello che inizialmente fa la differenza sono la tecnica e l’intelligenza tattica, come in una partita a scacchi.
Nella scherma moderna esiste un senso di ambiguità di fondo che apre la sala d’armi alla promiscuità nel senso più genuino e liberatorio del termine. Questa peculiare caratteristica l’ho sempre trovata riflessa nell’immagine stessa della divisa e del materiale usato dagli schermidori: il colore bianco che li rende uguali, la maschera che protegge il volto e che al tempo stesso nasconde le identità. E poi l’arma, uno strumento che materialmente è per tutti lo stesso, ma che può diventare tanto diverso in base al talento e alla tecnica dell’atleta che lo maneggia.
L’ambiguità è anche alla base di uno dei personaggi più famosi che si riconduce a questa disciplina: Lady Oscar, la spadaccina della corte di Maria Antonietta cresciuta e allevata come un ragazzo per volere del padre. Per anni in questo sport le donne hanno avuto la possibilità di allenarsi come gli uomini e, spesso, contro gli uomini, fregandosene delle categorie (comportamentali, in primis) culturalmente attribuite ai generi di appartenenza.
È stato osservando con attenzione le gare di scherma nelle ultime olimpiadi di Tokyo che mi sono resa conto di una decisiva mutazione in corso, soprattutto nelle categorie femminili. Molte più atlete si sono presentate sui loro profili social come madri a tempo pieno, molte altre hanno promosso orgogliosamente la propria femminilità come valore aggiunto alla carriera sportiva, altre hanno usato lo sport come piattaforma per fare attivismo politico a sostegno delle donne. I messaggi lanciati in questa Olimpiade hanno restituito ritratti di atlete che hanno smesso di mortificare o tacere la propria appartenenza di genere per essere prese sul serio dagli uomini, ma anzi hanno fatto di tutto perché il loro essere donne venisse sottolineato come valore aggiunto.
La storia della scherma femminile rappresenta un modo bellissimo per raccontare quanto lo sport in generale sia debitore alle conquiste del femminismo. E viceversa: quanto il talento di queste nuove atlete vada a inserirsi nelle fila di un discorso sull’empowerment di ragazze e bambine in cerca di role model che somiglino loro.
Voglio provare a raccontare questa storia cominciando dal centro, da un momento che, sono sicura, ricorderete tutti.
È il 2009 e l’intermezzo pubblicitario ha interrotto per l’ennesima volta la puntata dei Simpson che state guardando dopo pranzo. Nel salottino di casa vi raggiunge una voce che si presenta: «Sono Valentina Vezzali». Sullo schermo la campionessa saluta gli spettatori con il suo fioretto, senza maschera, per lasciare spazio subito dopo alle immagini di un incontro in pedana, un piccolo dejavu dell’estate precedente, quando sulla Rai davanti agli occhi degli italiani la stessa Vezzali aveva vinto l’oro nel fioretto individuale e il bronzo a squadre nell’Olimpiade di Atene.
Nella pubblicità le immagini di scherma durano pochi secondi: tutto lo spot è girato in una campagna idillica in cui l’atleta e il figlio si rincorrono felici tra il grano per poi fermarsi e fare una pausa con un Kinder Cereali, inserendosi in una tradizione di marketing già nota. Questo di Vezzali infatti non è il primo spot in cui la Kinder seleziona un VIP dello sport come testimonial. Nel 2006 c’era stata Fiona May (lunghista, argento ad Atlanta 1996 e Sydney 2000). Anche lei veniva ripresa in una scena di gioco con una piccolissima Larissa Iapichino, ma la voce fuori campo vi alludeva solo lontanamente («Saltare, giocare: sono sempre io, Fiona»).
Lo script che recita Valentina Vezzali invece ha qualcosa di diverso. «Quando non sono in giro per il mondo sono Vale, la mamma di Pietro» dice la campionessa, «mi piace portarmelo nella natura e stare insieme».
A questo punto della sua carriera Valentina Vezzali è già un mostro sacro dello sport italiano. Il suo palmarès è così pieno di ori da fare di lei un modello non solo per giovani schermitrici ma anche per gli schermidori. All’inizio del Duemila la fiorettista Jesina è tra gli atleti e le atlete più di successo della storia di questo sport (e forse dello sport in generale): cinque ori olimpici (il sesto a Londra 2012), cinque ori mondiali individuali e altrettanti europei. E qui prendiamo in considerazione solo il metallo giallo.
Il suo nome di battaglia nell’ambiente della scherma è “il cobra”, ispirato alla sua lenta preparazione seguita dall’attacco preciso e fulmineo.
Lo spot Ferrero, prendendo grandi sorsi dalla borraccia dello Zeitgeist, divide in modo netto il ruolo della campionessa da quello della madre, come se questo attributo Valentina Vezzali riuscisse a spegnerlo e a riaccenderlo all’occorrenza. Quando ho cercato il video della pubblicità per riguardarla ho trovato una pagina con alcuni commenti di utenti che addirittura si spingevano a giudicare quanto l’atleta fosse o meno una brava madre, dovendo lasciare il bambino per andare a gareggiare “in giro per il mondo”.
In verità quello spot rappresentava il primo passo verso un mondo che stava per cambiare: il superamento dell’idea che una campionessa, per essere tale, dovesse presentarsi come essere monolitico, mettendo in evidenza il suo lato maschile a discapito di quello femminile.
Il fenomeno Valentina Vezzali inaugura una fase di enorme successo per la scherma italiana, che a sua volta stava vivendo una rivoluzione gigantesca a livello internazionale. Nel 1996, ad Atlanta, per la prima volta alle donne è stato permesso di gareggiare nella disciplina della spada. Nel 2004, ad Atene è stata introdotta la sciabola femminile. Vezzali è stata per molti anni l’olimpionica di riferimento di tutte quelle donne che, pur militando in specialità differenti, non avrebbero avuto storicamente modelli a cui ispirarsi.
La prima volta che il fioretto è stato introdotto alle Olimpiadi per le donne era il 1924.
La sciabola? Troppo veloce.
La spada? Troppo pesante.
Queste due specialità sono a lungo state considerate armi poco femminili. Per dimostrare di riuscire a combattere come donne, le schermitrici di tutto il mondo avrebbero dovuto per prima cosa dimostrare di essere in grado di combattere come gli uomini.
Avanti veloce di quarantanove anni e varie Olimpiadi dopo. Questa volta le donne italiane ci sono state in tutte le specialità: sciabola, spada e fioretto. Le federazioni internazionali di scherma che partecipano con una rappresentanza femminile si sono moltiplicate. Un’atleta come Mara Navarria ha visto a Tokyo la sua seconda Olimpiade e ha portato a casa il bronzo nella spada a squadre insieme alle compagne Rossella Fiamingo, Federica Isola e Alberta Santuccio.
Dal villaggio olimpico l’azzurra si è postata quotidianamente in compagnia dell’inseparabile hashtag #mammaatleta. Questo nome di battaglia le aveva già portato fortuna nel 2018, quando a pochi mesi dalla nascita di suo figlio era riuscita a vincere l’oro in coppa del mondo e nel mondiale dello stesso anno. Laureata in scienze motorie e seguita dal compagno che è anche il suo preparatore atletico, Mara aveva continuato ad allenarsi fino all’ottavo mese di gravidanza con specifici accorgimenti, di cui parla bene qui in un’intervista con Io Donna.
Navarria rappresenta l’evoluzione del messaggio che aveva iniziato a diffondersi a partire dallo spot di Valentina Vezzali: la spadista friulana è comparsa spesso sulle copertine dei magazine femminili promuovendo la sua esperienza di madre e sportiva come due sfere compatibili e possibili. Diffondere l’idea che essere madre non costituisca un’esperienza da riservarsi esclusivamente a fine carriera è uno degli obiettivi dell’azzurra. Così come lo è l’idea che la maternità costituisca un fattore emotivo capace di potenziare la performance in pedana.
Il risultato è che attualmente la Federazione Italiana Scherma costituisce un esempio illuminato di federazione sportiva in ambito femminile. Grazie all’esperienza di atlete fortissime come Valentina Vezzali, Giovanna Trillini, e della stessa Navarria sono state approvate misure secondo cui alle schermitrici in maternità vedono “congelati” i propri punti nella classifica internazionale così da non essere penalizzate dopo il periodo di allontanamento dalle pedane.
Sempre all’Olimpiade di Tokyo anche la frangia del femminismo intersezionale ha ricevuto le dovute attenzioni grazie all’argento a squadre della fiorettista francese Ysaora Thibus. In un’intervista con la CNN, Thibus ha rilasciato una dichiarazione significativa: «I'm an athlete, but first I'm a woman. I'm a Black woman». L’impegno femminista dell’atleta si è concretizzato nella creazione della piattaforma EssentiElle, uno spazio su cui vengono condivise voci di donne nello sport e racconti di storia dello sport femminile. L’obiettivo di questo progetto è quello di combattere l’atteggiamento mediatico più diffuso in base a cui agli sport maschili viene concessa più visibilità (e di conseguenza l’attenzione degli sponsor).
A metà tra femminismo intersezionale e un atteggiamento che ricorda molto il femminismo di terza ondata, fondato sulla valorizzazione del corpo femminile come forma di empowerment, si colloca infine l’esperienza di Alexandra Ndolo.
La spadista tedesca ha fatto parlare di sé recentemente per la copertina di PlayBoy di Agosto, dove posa nuda insieme alla nuotatrice Marie Pietruschka e a Lisa Ryzih, dell’atletica. Alexandra è la prima schermitrice tedesca di origine africana ed è la numero uno del ranking di spada femminile in Germania. Migrante di seconda generazione, è nata da madre polacca e padre keniano.
Ci siamo incontrate per una chiacchierata su Zoom a ridosso dell’uscita di Playboy.
«Come atleta lavoro così tanto con il mio corpo e il risultato è appunto un corpo di cui sono fiera, un corpo che parla anche del mio lavoro», ha dichiarato. «Sono grata alla generazione di donne precedenti alla mia per le loro lotte. È per me inimmaginabile l’idea che mia nonna dovesse chiedere il permesso di suo marito o di suo padre anche solo per lavorare. Oggi come donne siamo al punto in cui possiamo e dobbiamo decidere come vogliamo vederci rappresentate».
Alexandra Ndolo ha creato una fondazione volta a promuovere la scherma in Kenya, un gesto che ha reso possibile recentemente la nascita della Federazione schermistica keniana. Lei stessa non nasconde quanto questo progetto sia nato soprattutto avendo in mente le giovani donne: «Le donne keniane, come tutte le donne africane, sono la spina dorsale del continente ma socialmente è ancora un paese dove sono gli uomini ad occupare i posti di potere. La scherma mi ha dato i mezzi per conoscere il mondo, imparare a viaggiare e a rapportarmi a culture diverse. Questo è stato possibile per me che non avevo una famiglia ricca alle spalle, e voglio che la mia esperienza non sia un’eccezione.»
Apparire su un magazine come Playboy potrà sembrare a molti una scelta controversa, soprattutto considerando le critiche storicamente rivolte alla testata per l’oggettificazione del corpo femminile. Il discorso di Ndolo però è importante perché passa dal “corpo come oggetto” al “corpo come identità totale”, invitando al superamento delle classiche divisioni tra apparire ed essere, bellezza e intelligenza, sensualità e santità.
La spadista tedesca si lascia ritrarre con la sua spada in pose plastiche su un piano specchiato contro uno sfondo nero e la storia che esce fuori da quelle immagini racconta le potenzialità di un corpo forte e sicuro di una bellezza non convenzionale, un corpo che si piace prima di tutto per quello che riesce a fare. Nel caso di Ndolo: imporsi sulla pedana ad alti livelli. «La scherma in Germania è uno sport minore», spiega l’atleta, «se faccio risultati come schermitrice, le persone non lo noteranno, ma se faccio una copertina come quella di Playboy invece improvvisamente entro nel discorso mainstream e anche quello che ho da dire viene ascoltato».
Partendo dalla posizione di chi ha dovuto lottare per essere accettata come pari, la storia delle donne nella scherma disegna fino a oggi un percorso di integrazione e superamento fedele alle tappe dell’esperienza femminista internazionale. A Tokyo questa linea è stata visibile come mai prima, ottenendo il sostegno anche da parte degli uomini, come nel caso degli spadisti americani che hanno indossato mascherine rosa in segno di protesta contro la violenza di genere. Il gesto, nato per contrastare la convocazione dello spadista Alen Adzic, accusato di molestie sessuali, ha assunto un significato politico universale che dal palcoscenico olimpico ha fatto il giro del mondo.
Le esperienze di Mara Navarria, Ysaora Thibus e Alexandra Ndolo declinano in modi diversi una femminilità mai stereotipata che viene esibita con orgoglio e ha un linguaggio nuovo. Il loro è un modo di essere donne e atlete che non cerca di modellarsi sugli standard maschili ma che nell’essere donne trova dei punti di forza d’eccezione.
In comune c’è un dettaglio, però, fondamentale: l’intelligenza di ricercare la giusta esposizione mediatica attraverso cui raccontare la possibilità e costituire così un precedente per tutte quelle bambine e ragazze che altrimenti, in molti casi, non oserebbero aspirare a tanto.
Olga Campofreda è ricercatrice di letteratura e cultura italiana. Vive a Londra e quando non è in British Library lavora come maestra di scherma. Il suo ultimo libro è “Dalla generazione all’individuo: giovinezza, identità, impegno nell’opera di Pier Vittorio Tondelli” (Mimesis 2020).
Tifare il baseball insegna ad avere pazienza, a gestire la delusione e a perdonare.
Intervista con Emily Nemens, autrice di Cactus League.
di Alessandro Lanni
Emily Nemens in questa intervista mi ha detto che in Cactus League – il suo ultimo romanzo arrivato da poco anche in Italia, tradotto e pubblicato dall'editore 66thand2nd – c'è poco baseball. La mia impressione invece è che ce ne sia molto, moltissimo, raccontato peraltro da chi conosce bene questo sport che fuori dagli Usa e da pochi altri paesi è considerato difficile e oscuro. Poi tutto sta a trovarsi su cosa si intende quando si dice che uno sport è presente o meno in un'opera. Per dire, nel film Moneyball – sì quello con Brad Pitt – non c'è nemmeno un’azione di gioco, però resta lo stesso un gran film sul baseball (ispirato dal gran libro sul baseball di Michael Lewis).
Emily Nemens è stata anche direttrice di una rivista sofisticata come The Paris Review ma con Cactus League dimostra di conoscere il National Pastime (il passatempo nazionale, nda) in tutte le sue pieghe: quelle sportive e quelle legate al mondo che gli gira intorno.
La “Cactus League” del titolo è una delle due leghe costituite dalle squadre professionistiche nel pre-campionato del baseball a stelle e strisce utile a costruire le squadre che andranno a giocare la stagione regolare che parte nei primi giorni di aprile. Il romanzo attraversa le storie di alcuni personaggi universali del baseball americano: il grande campione che inciampa, il vecchio allenatore, la groupie che prova a sedurre qualche giocatore, il manager sul campo da golf.
Piccole grandi vicende intrecciate sullo sfondo dello sport più americano che c'è.
Perché hai scelto uno sfondo come il baseball per il tuo romanzo?
Da sempre sono una tifosa di baseball, sono cresciuta a Seattle guardando i Mariners. Ma al di là della mia passione personale ho pensato che il baseball potesse essere un microcosmo molto interessante per raccontare la cultura americana. Volevo scrivere di alcuni grandi temi - la Grande Recessione, l'invecchiamento e le dipendenze, e ho visto che potevo affrontare questi argomenti complessi attraverso uno sport professionistico.
Il tuo romanzo inizia con un'istantanea degli effetti concreti della crisi del 2008 sulle persone. Perché hai scelto di iniziare da lì?
Uno dei grandi temi del libro è la costruzione di una casa, anche temporanea, per lo spring training di una squadra professionistica di baseball. Volevo mettere a confronto tutti questi atleti e squadre che cercano un posto dove stabilirsi per la primavera in Arizona.
Mi ha colpito il ruolo delle donne nel tuo romanzo. Che donne sono quelle che girano attorno ai Lions, la squadra di fantasia protagonista della storia?
In film come A League of Their Own [Ragazze vincenti il titolo in Italia] o il recente libro The Resisters [di Gish Jen] le donne scendono in campo in circostanze straordinarie. Io volevo scrivere delle donne nel baseball in circostanze normali. E cioè di quelle che, per lo più, sono relegate ai margini, a ruoli di supporto. Raramente questo lavoro – spesso domestico, spesso solitario – viene riconosciuto, ma penso comunque che sia vitale.
Perché hai scelto di ambientare il tuo romanzo nello Spring training piuttosto che durante la stagione regolare o i playoff?
Molte storie di baseball riguardano la fine della stagione, le finali o il conteggio di vittorie e sconfitte. A me interessava invertire questa narrazione: invece di far finire le cose, o di arrivare a un punto, l'inizio della stagione può offrire un orizzonte infinito, una possibilità infinita. Se non ci interessa chi vince la partita o la stagione, dov'è la tensione narrativa? Sicuramente è lì, dobbiamo solo trovarla.
Quali sono i romanzi sportivi che consiglieresti? E ce ne sono alcuni che ti hanno influenzato?
Amo The Throwback Special di Chris Bachelder, che mi piace molto per come scrive della psicologia di un atleta che invecchia, in questo caso una squadra di calciatori in pensione. Penso che The Art of Fielding di Chad Harbach sul baseball nei college sia un grande libro. Forse il perfetto pezzo di scrittura sul baseball è Pafko at the Wall, la novella che apre Underworld di Don Dellilo.
Cosa rappresenta il baseball per la letteratura americana?
Esiste una serie di romanzi sul baseball. Non sono moltissimi, ma sono molto venerati. Penso che sia qualcosa che riguarda il mettere insieme il baseball come passatempo americano con i romanzi che cercano di raccontare la cultura del paese. Ci sono stati momenti nel secolo scorso in cui un'intera città, forse anche l'intero paese, si raccoglieva intorno a una squadra o a un singolo giocatore. Scrivere di baseball ti dava la possibilità di scrivere di un'esperienza quasi universale o, se ti concentravi sugli atleti, di scrivere delle persone che animavano quell'universo. Il baseball non è più un'esperienza universale – perché non è più così popolare come una volta - ma anche questo cambiamento è una cosa interessante da esplorare. Cosa succede agli atleti e a uno sport quando perdono il loro primato culturale?
Ecco, qual è lo stato di salute del baseball negli Stati Uniti? Quanto è cambiato negli ultimi anni?
Ha perso un po' di popolarità a favore del calcio. Chiedi a cento persone e avrai cento risposte sul perché, ma credo che una parte sia il ritmo del gioco. Il baseball è uno sport lento, e non sono sicura che questo funzioni per i nostri cervelli affamati di internet, che vogliono che le cose si muovano sempre più velocemente. E inoltre penso che lo scandalo del doping degli anni '90, lo scandalo degli imbrogli più recentemente, possa aver fatto allontanare alcuni tifosi.
Hai mai praticato uno sport?
Poco! Ho provato a giocare a softball, ma non ero molto brava. Dopo alcune estati in cui mi ho giocato esterno [un ruolo nel baseball/softball, nda], ho smesso di provarci e ho iniziato a guardare. Ho avuto più fortuna con il calcio, che ho giocato – con alterni risultati – dai cinque ai trentacinque anni. Non sono mai stato brava, ma mi piaceva essere in una squadra.
Dicevi che tifi i Mariners, la squadra di Seattle.
Sì, anche se vivo lontano da Seattle da vent'anni ormai, e li seguo da lontano... spesso giocano quando vado a dormire. Mi sveglio per vedere se hanno vinto o perso. I Mariners sono la squadra che da più tempo non raggiunge i playoff (2001) negli sport professionistici americani. Tifarli insegna ad avere pazienza, a gestire la delusione e a perdonare.
Queste intervista la leggeranno degli italiani. Dammi un suggerimento per avvicinarli a questo sport che entrambi amiamo?
Beh, la buona notizia per quel lettore, se dovesse avvicinarsi a Cactus League: non c'è molto baseball nel libro! Oppure, c'è molto baseball, ma ho cercato in tutti i modi di renderlo accessibile e piacevole per chi non conosce questo sport e allo stesso tempo di renderlo un'esperienza che soddisfi il grande appassionato. È stato un ago difficile da infilare, ma penso che ne sia valsa la pena. Per quanto riguarda l'apprendimento dello sport in generale, penso che leggere il giornalismo sportivo di Roger Angell sia un ottimo punto di partenza. Ha scritto di baseball con passione ed entusiasmo per settant'anni, e penso possa fare benissimo al caso dell'Italia.
Alessandro Lanni è un allenatore di baseball e di softball e poi giornalista.
Due o tre cose che abbiamo fatto in giro in queste ultime settimane
Ci speravamo tutt* che arrivasse una medaglia dalla squadra di pugilato femminile che ha partecipato alle Olimpiadi. Dalla delegazione composta da Angela Carini, Giordana Sorrentino, Rebecca Nicoli ed Irma Testa solo quest’ultima è riuscita a conquistare il bronzo. Ma le previsioni per il futuro sono molto positive e da qui a Parigi 2024 ci saranno ulteriori passi avanti nel mondo della boxe femminile italiana. Intanto su Ultimo Uomo io vi racconto come è andata a Tokyo: come vedrete c’è molto di più di una sveglia prestissimo al mattino e del tifo da stadio in solitaria sul letto.
Qualche giorno dopo le dichiarazioni di Simone Biles sul suo stato d’animo alle Olimpiadi, l’Unione Sportiva Stella Rossa ha invitato Zarina Newsletter a parlare di cattive traduzioni dall’inglese all’italiano, salute mentale e sport, pressione mediatica e previsioni per il futuro. Mi sono fatta accompagnare da altre tre scrittrici di sport con cui condivido una chat su Whatsapp ed una certa Weltanschauung sportiva: Olga Campofreda, Tiziana Scalabrin ed Elena Marinelli. La potete ascoltare premendo questo bottone qui:
Due o tre cose che abbiamo letto ed ascoltato in giro in queste ultime settimane
Breanna Stewart e Marta Xargay hanno iniziato la loro relazione nel momento più brutto della carriera di Stewie: il giorno dell’incidente in campo in cui la giocatrice americana si è rotta il tendine di Achille. Le due cestiste erano compagne di squadra, e poi sono diventate molto di più. Sembrava che il fenomeno del basket americano fosse arrivata a fine carriera troppo presto e invece stava solo iniziando tutto da capo. Due anni, un titolo WNBA, un oro olimpico (per citare solo i titoli più importanti) e una proposta di matrimonio dopo, Stewie e Marta hanno avuto una bambina.
Ci raccontano tutto in questo video sensazionale soprattutto per questa frase: «spero che questo (immagino qui Stewie stia facendo riferimento al fatto che l’amore è nato quando tutto intorno sembrava davvero essere giunto ad una fine) continui a mostrare alle persone che non c’è una modalità perfetta per trovare l’amore, avere una famiglia o crearne una».
Gli amici di Paradiso Amaro hanno intervistato Martina Batini, la schermitrice della Nazionale italiana specializzata nel fioretto. È un’intervista in cui Batini ci racconta il mondo della scherma italiana ma soprattutto – utile per chi come noi si è appassionat* alla scherma durante le Olimpiadi – ci fa un Bignami sulle tre armi e sulle loro caratteristiche. Lo potete ascoltare qui:
Siamo all’arrivederci a Settembre.
Ma prima vi cito uno dei tweet sensati di questo ultimo mese che ho trovato (a sua volta condiviso) nell’Instagram di Daniele Manusia: “In an age of hate, to love is to resist” che fa il paio con il titolo del mio diario che nel 2021 si chiama “resistere”.
E si collega a questa canzone che mi ha accompagnato durante tutta la prima metà dell’anno e continua a farlo anche – e soprattutto – in questi giorni:
E anche questo mese è stato bellissimo.
Ti ricordo che la shopper di Zarina è tornata e la puoi avere (e con essa diffondere l’hype in giro per l’Europa) pigiando questo bottone rosa
Infine se c’è qualcosa che ci vuoi dire oppure se ci vuoi dare un feedback su Zarina basta che rispondi a questa mail. Ci puoi mandare anche una foto del tuo diario, un selfie con la borsa di Zarina o quello che ti va di condividere con noi.
Noi ci sentiamo a fine settembre. Per tutto il resto c’è il nostro canale Instagram
Infine ricorda: #siamotutt*Zarina
Ciao!